L'Urb. lat. 365 è tra i più sontuosi esemplari manoscritti di Divina Commedia.
Se imparassimo ad ascoltare Dante, sentiremmo il maturare del clarinetto e del trombone, sentiremmo il trasformarsi della viola in violino e l'allungarsi di un pistone del corno.
(Osip Mandel'štam, Conversazioni su Dante, 1933)
Il Dante Urbinate, manoscritto in formato medio confezionato con pergamena di alta qualità, è tra i capolavori della collezione libraria di Federico da Montefeltro (1444-1482), prima conte e poi duca di Urbino. Egli ebbe l’ambizione di trasformare il capoluogo marchigiano in ‘città ideale’ del Rinascimento, sia attraverso la costruzione di un architettonicamente innovativo palazzo signorile sia con l’allestimento di una biblioteca che raccogliesse tutto il sapere, passato e presente.
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L’articolato, complesso apparato decorativo e illustrativo del codice è stato, già in tempi molto precoci, stimolo al dibattito storiografico. Fu Adolfo Venturi (in Franciosi, Il Dante Vaticano, pp. 123-124 e nt. 9) che per primo indicò in Guglielmo Giraldi l’autore delle miniature a commento della Commedia (cfr. qui per la questione relativa alla presenza dei maestri padano-ferraresi a Urbino e per il loro legame con Matteo Contugi, copista del codice). Un’attribuzione ancora oggi valida – seppure con tutta una serie di sfumature, cfr. oltre – e che non è mai stata messa in discussione (cfr. tra gli altri Hermann, La miniatura estense, passim; Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373; D'Ancona, La miniatura, pp. 353-361; Bonicatti, Aspetti dell’illustrazione, pp. 107-149; Bonicatti, Contributo al Giraldi, pp. 195-210; Levi D'Ancona, Contributi al problema, pp. 33-45; Luigi Michelini Tocci in Il Dante Urbinate, commentario all'edizione facsimilare del 1965 che qui si utilizza per la decodifica e le attribuzioni delle immagini all'interno delle annotazioni, insieme al nuovo commentario La Divina Commedia di Federico). Se Venturi si concentrò sopratutto su Giraldi, Federico Hermanin si pose il problema della presenza di collaboratori al lavoro al fianco del maestro e tentò di mettere a fuoco la figura di Alessandro Leoni, nipote di Giraldi stesso e attestato con lui nell'esecuzione di manoscritti per i Gonzaga; lo studioso individuò inoltre altre due mani, che indicò come quella del Violaceo I e del Violaceo II (Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373), a testimonianza della complessità del manoscritto.
Sin dagli albori del Novecento si è inoltre fatta strada l’ipotesi che alcune delle miniature tabellari negli ultimi canti dell’Inferno e la maggior parte di quelle che illustrano il Purgatorio non dovessero essere attribuite alla bottega di Giraldi, bensì a un secondo gruppo di artisti che, ancora una volta, Hermanin riuniva attorno a quel «magistro Franco da Ferara» – vale a dire Franco dei Russi – unico registrato tra i «maestri miniadori de libri» nella Memoria felicissima delo Illustrissimo Duca Federico Duca de Urbino compilata dal cortegiano Susech (Urb. lat. 1204, f. 102r; è una vera e propria lista del personale al servizio nella corte feltresca durante gli anni del regno di Federico). Lo studioso suggeriva un’ipotesi per l’avvicendarsi delle due botteghe: la circostanza cioè che Franco fosse stanziale a Urbino, a differenza di Giraldi che continuava invece a lavorare anche a Ferrara (Hermanin, Le miniature ferraresi, pp. 341-373, egli fu successivamente smentito da un documento epistolare, cfr. oltre; una proposta confutata anche da Paolo D’Ancona, La miniatura, p. 354). Nella scia di Hermanin si pose Alberto Serafini, il primo a individuare l’ormai celebre frammento con il Trionfo di dotto della British Library di Londra, firmato «Dii faveant / opus Franchi miniatoris» (Add. 20916), che lo studioso mise in relazione proprio con un esemplare della collezione urbinate, l'Urb. lat. 336 (le Epistolae di Libanio, databile agli anni del ducato di Federico) che gli suggerì di dare più rilievo alla presenza a Urbino di Franco piuttosto che a quella di Giraldi (Serafini, Ricerche, pp. 420-422).
f. 84r, Inf. XXXI: i giganti Nemrot, Fialte e Anteo, che sorregge Dante e Virgilio - f. 100r, Purg. II: Dante e Virgilio, seguiti da Catone l'Uticense, incontrano Casella
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L’idea della diversa rilevanza dei due miniatori è al centro della riflessione di Maurizio Bonicatti, che ancora una volta sottolineava l’importanza di Giraldi, coadiuvato nell’impresa soprattutto da Alessandro Leoni, sia nell’Inferno sia nei primi fogli della seconda cantica (un aspetto essenziale precisato con nuove importanti acquisizioni da Fumian, Su alcuni miniatori ferraresi, pp. 103-117). Lo studioso rifiutava sostanzialmente la possibilità di un intervento di Franco dei Russi e assegnava la campagna di decorazione ‘non giraldiana’ a colui che denominava Secondo maestro, a sua volta a capo di un’équipe (Bonicatti, Contributo al Giraldi, pp. 195-210; Bonicatti, Nuovo contributo, pp. 259-264). Alla metà degli anni ’50 Bonicatti e, contestualmente ma in maniera separata, Gino Franceschini pubblicarono una importante lettera che permise di mettere a fuoco un punto fondamentale della vicenda (smentendo nei fatti la posizione di Hermanin, cfr. supra). Datata al 1480, in essa Federico da Montefeltro scriveva a Ludovico Gonzaga, duca di Ferrara, che avrebbe inviato in città «messer Guglielmo servitore de Vostra Signoria et mio miniatore» per copiare alcuni volumi (Bonicatti, Contributo al Giraldi, p. 195; Franceschini, Figure del Rinascimento, p. 144); Bonicatti ne dedusse quindi che il Secondo maestro fosse subentrato a Giraldi a causa della morte di quest’ultimo.
La pubblicazione della lettera aprì quindi a tutta una serie di ipotesi: Mirella Levi D’Ancona, che offrì alcune puntualizzazioni sull’attribuzione delle miniature, suggeriva che la partenza di Giraldi per Ferrara avesse indotto Federico a investire Franco del compito di portare a termine il lavoro sulla Commedia (Levi D’Ancona, Contributi al problema, pp. 42-43). Luigi Michelini Tocci assegnava infine il lavoro a due diverse équipe, la prima da ricondurre a Guglielmo Giraldi e la seconda a Franco dei Russi, in un avvicendamento dovuto forse all’eccessiva lentezza di Giraldi (Il Dante Urbinate, passim), per poi interrompersi definitivamente con la morte di Federico stesso (1482).
Una posizione ancora oggi valida nelle sue premesse e che ha fornito una solida base per ulteriori e più articolate riflessioni. In anni recenti, infatti, Giordana Mariani Canova si è diffusamente concentrata sul Dante Urbinate, soprattutto nei suoi studi dedicati a Guglielmo Giraldi, al quale suggerisce di affidare, insieme alla sua bottega, l’intero apparato illustrativo dell’Inferno e il frontespizio e le prime due miniature tabellari del Purgatorio. La campagna di illustrazione della seconda cantica è quindi proseguita da Franco dei Russi e dalla propria équipe (Mariani Canova, Guglielmo Giraldi 1995, passim); la studiosa sottolinea a tal proposito che i due maestri avessero già collaborato alla realizzazione di uno dei volumi della Bibbia della Certosa di San Cristoforo a Ferrara, impresa alla quale partecipa molto probabilmente anche Alessandro Leoni (cfr. Modena, Biblioteca Estense Universitaria, ms. alfa Q.4.9 = Lat. 990, Salterio sottoscritto «per magistrum Gulielmum civem Ferrariensem et Alexandrum eius nepotem»; Mariani Canova, Guglielmo Giraldi 1995, passim; sul nodo relativo ai miniatori ferraresi a Urbino, cfr. anche Ponzi, Franco dei Russi o Anonimo giraldiano?, pp. 155-175; Ead., Tra Ferrara e Urbino, pp. 349-383 e, per un inquadramento più generale, cfr. Critelli, Ottaviano Ubaldini, pp. 79-101).
f. 80v, Inf. XXX: al centro della scena, in piedi, Gianni Schicchi azzanna Capocchio - f. 9r, Inf. III-IV: Dante e Virgilio nel Limbo al cospetto di Omero, Orazio, Ovidio, Lucano
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Il recentissimo commentario alla nuova edizione in facsimile del codice (La Divina Commedia di Federico) introduce, in questo già amplissimo dibattito, ulteriori elementi di novità e alcune precisazioni rispetto al processo di allestimento delle immagini. Federica Toniolo, nel riprendere di nuovo le fila del dossier (Toniolo, L’officina ferrarese, pp. 149-175), ripercorre l’intero apparato figurativo, sia dal punto di vista della costruzione della mise-en-page e quindi della definizione del rapporto tra testo e immagine – ancora in continuità con la tradizione trecentesca, naturalmente riletta «in chiave pienamente rinascimentale», con i «riquadri che si aprono illusionisticamente sulla pagina», in una «misura ampia e realistica del racconto che ravviva gli schemi» (Toniolo, L’officina ferrarese, p. 152) – sia per le attribuzioni alle singole miniature, con osservazioni significative per una più precisa comprensione dei processi di produzione del volume e, parimenti, del metodo di lavoro dell’officina ferrarese. Sebbene a più riprese già adombrato dalla critica, come si è visto, l’aspetto che in questa nuova sede emerge rafforzato è proprio l’idea del lavoro di équipe (Toniolo, L’officina ferrarese, p. 169), elemento di grande fascino storiografico, ma anche di difficoltà per una chiara definizione dell’attività della bottega. La proposta dell’avvicendamento sic et simpliciter tra Giraldi e Leoni da un lato e dei Russi dall’altro è a ragione sfumata, in favore di una visione più articolata che insiste sulla compresenza dei maestri e dei loro collaboratori. Tra i fogli del Dante Urbinate si rimescolano infatti modi espressivi, lemmi decorativi, peculiari attitudini al trattamento della superficie pittorica, in un groviglio inestricabile che dà forse la misura, seppure in negativo per noi che osserviamo a molti secoli di distanza, della complessità e delle stratificazioni, anche di tipo pratico, proprie di quella realtà. Rimescolamento e compresenza che tuttavia «non privano» il manoscritto «di una sostanziale uniformità […] addebitabile a una sintonia d’intenti», in maniera così evidente che «‘l’intenzione dell’opera’ prevale sui propositi dei singoli autori», con un esito di omogeneità possibile grazie a «un impianto stilistico coeso e coerente» dovuto a Guglielmo Giraldi (Toniolo, L’officina ferrarese, pp. 171, 173).
L’allestimento del Dante per Federico da Montefeltro si interruppe probabilmente con la morte di questi nel 1482: la scomparsa del committente arrestò il lavoro, completato solo per la prima cantica e per parte del Purgatorio – per una più precisa definizione della questione cfr. Toniolo - Talamo, Descrizione delle miniature, pp. 199-271. La seconda campagna decorativa fu quindi avviata nel Seicento, per volontà di Francesco Maria II Della Rovere (1549-1631), quando il miniatore Valerio Mariani fu incaricato di concludere il lavoro sospeso dai maestri padano-ferraresi e portò così a termine, intervenendo negli spazi riservati già predisposti, il Purgatorio ed eseguì ex novo il ciclo del Paradiso (cfr. da ultima, Talamo, Valerio Mariani illustratore, pp. 177-197).
f. 277v, Par. XXVIII: Dante e Beatrice nel nono cielo, il Primo Mobile, nel quale risplendono i nove cori angelici
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In un primo tempo il responsabile di questa seconda fase di decorazione fu indicato in Giulio Clovio, attribuzione confutata a ragione da Luigi Michelini Tocci, grazie a documenti d’archivio e attraverso il confronto tra l’Urb. lat. 365 e quanto visibile negli Urb. lat. 1765, Historia de’ fatti di Federico di Montefeltro, e Urb. lat. 1764, Vita di Francesco Maria I della Rovere (Michelini Tocci, Introduzione, pp. 63-64). Silvia Meloni Trkulja, ai primissimi anni ’80 del Novecento, confermò tale attribuzione in seguito al ritrovamento agli Uffizi di Firenze di un foglio illustrato con la Battaglia di San Fabiano e firmato proprio da Valerio Mariani di Pesaro (Meloni Trkulja, I miniatori di Francesco Maria, pp. 33-38; Ead., Scheda nr. 384, p. 204). Nel medesimo solco si collocano gli studi di Erma Hermens che, tra le altre cose, proponeva la presenza di un collaboratore ad affiancare il maestro nell’impresa (Hermens, Valerio Mariani, pp. 93-102; posizione condivisa anche da Helena Szépe, Mariani, Valerio, pp. 723-727). Un aspetto sul quale insiste, con un efficace focus di approfondimento, anche Emilia Anna Talamo, che sottolinea da un lato certi rapporti tra la produzione figurativa di Mariani e quella coeva, su scala monumentale, di Federico Barocci, e dall’altro la presenza di una bottega che sostiene l’attività di Mariani stesso (Talamo, Valerio Mariani illustratore, pp. 188-194).
Urb. lat. 365, f. 197r - Urb. lat. 1765, f. 3v
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Urb. lat. 365, f. 197r - Urb. lat. 1764, f. 3v
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Nato come manufatto di apparato per soddisfare le esigenze di compiutezza della raccolta libraria federiciana, nel suo completamento seicentesco l’Urb. lat. 365 è anche un peculiare esempio di ‘recupero dell’antico’, dove l’antico non è più quello classico, ma quello umanistico-rinascimentale, senza dubbio venato da una volontà di autolegittimazione del potere da parte del nuovo possessore, quel Federico Maria II Della Rovere, ultimo duca di Urbino (da ultimo, per una aggiornata visione d’insieme, cfr. Ceresa, Gli studi sul Dante, pp. 293-307).
In questa mostra, per altri esemplari manoscritti di Divina Commedia illustrata, cfr. Barb. lat. 4112; per le incisioni, cfr. Stampe IV.3, Casimiri II.2.