4. LA CAPITALE LIBRARIA ROMANA
A partire dal secolo III a.C., con la nascita di una vera letteratura in lingua latina, e con la crescita dell’alfabetismo e la diffusione delle scuole, a Roma si ampliò la produzione di libri (rotoli di papiro) che venivano realizzati non solo da scribi all’interno delle famiglie più agiate ma anche in botteghe artigiane. Questo processo si rafforzò nei secoli successivi, quando nacquero anche le prime biblioteche.
Caratteristiche e uso della capitale libraria
La scrittura utilizzata è la CAPITALE LIBRARIA ROMANA, simile alla capitale epigrafica della quale mantiene molte caratteristiche, come la separazione delle lettere, l’uniformità del modulo e l’impianto bilineare caratteristico della scrittura maiuscola, che si presenta come facilmente leggibile. Rispetto alla capitale epigrafica eseguita sulla pietra, ci sono alcuni adattamenti, dovuti alla flessibilità del calamo, alla morbidezza della materia (papiro) e alla diversità della tecnica (scrittura, non incisione).
La capitale libraria si diffuse in tutti i territori soggetti a Roma e divenne per alcuni secoli (almeno fino al III secolo d.C.) l’unica scrittura libraria del mondo latino. Le più antiche testimonianze rimaste si trovano nei papiri di Ercolano e in pochissimi altri; sulla loro base si può ricostruire l’alfabeto.
Le caratteristiche della capitale libraria sono:
- chiaroscuro accentuato, con forte contrasto tratti pieni e tratti sottili (filetti);
- separazione rigida delle lettere fra loro;
- uniformità del modulo, in uno schema bilineare;
- tendenza a trasformare gli angoli da retti a curvi;
- all’estremità delle aste verticali, spesso si trova un allargamento a forma di spatola o un trattino orizzontale di coronamento.
A partire dal IV secolo cominciarono a diffondersi altri tipi di scrittura libraria (l’onciale e la semionciale), ma la capitale continuò a essere usata ancora fino al VI secolo. La diffusione di un nuovo tipo di libro (il codice di pergamena) e la crisi della produzione libraria romana, in parte determinata anche dalla crisi economica, politica e istituzionale che alla fine del V secolo portò alla caduta dell’impero romano d’Occidente, resero sempre più netta la differenza tra codici di lusso e codici per uso scolastico o privato. Esistono varie testimonianze, tra cui anche alcuni codici integri o quasi, per lo più riconducibili alla classe colta del basso Impero, cioè alla classe senatoria.
Questi codici contengono prevalentemente testi dell’antico patrimonio letterario latino e sono spesso il frutto di un recupero culturale di stampo tradizionalistico, in contrapposizione alla nuova cultura cristiana. Gli esempi (codici con testi di Virgilio e di Terenzio) furono raccolti e studiati da Elias Avery Lowe (1880-1969) fra il 1934 e il 1971. Trattandosi di un numero ridotto di testimonianze, è difficile datare con sicurezza questi manoscritti.
Esempi significativi di scrittura capitale libraria si trovano nei seguenti manoscritti:
- Vat. lat. 3225 (detto “Virgilio Vaticano”), con opere di Virgilio, sec. IV/V;
- Vat. lat. 3867 (detto “Virgilio Romano”), con opere di Virgilio, sec. V ex;
- Vat. lat. 3226 (detto “Terenzio Bembino”), con opere di Terenzio, sec. V ex.
Dopo il secolo VI, la capitale libraria fu abbandonata per la scrittura di libri. Di norma nei manoscritti cristiani, per i testi più importanti, come quelli biblici, non si usò la capitale ma un’altra scrittura considerata solenne, l’onciale, e per gli altri scritti la semionciale. Fanno eccezione i codici che riportano i testi di Prudenzio e Sedulio, forse perché prevalse la loro qualità di poeti, anche se cristiani; non è pervenuto alcun testo di Virgilio in onciale o in semionciale, e nessun testo biblico in capitale.
La capitale libraria tuttavia fu ancora usata come scrittura distintiva, ad esempio per le intestazioni di capitoli, incipit (le prime parole di un testo) ed explicit (l ultime parole di un testo), per titoli correnti e a questo scopo fu molto utilizzata anche nel periodo umanistico.