13.1. Le scritture altomedievali dell’Italia centro-settentrionale
Il popolo conquistatore longobardo non conosceva la scrittura se non in forme molto primitive, anche se presto ne comprese l’importanza (nel 643, il re Rotari fece mettere per iscritto, e in lingua latina, la prima raccolta di leggi longobarde).
Fra i secoli VII e VIII/IX, l’Italia centro-settentrionale non sviluppò una propria scrittura. Si continuava a scrivere (ma poche sono le testimonianze) in onciale, in semionciale e in corsiva nuova. Quest’ultima tuttavia, verso la fine del secolo VII sviluppò alcune caratteristiche che hanno fatto parlare di corsiva nuova italiana, ma la scarsità dei manoscritti e la difficoltà di localizzarli e di datarli rendono difficile poter tracciare un quadro convincente.
Diverse fra loro furono dunque le scritture utilizzate, frutto di un processo talvolta di calligrafizzazione della corsiva documentaria locale, resa più posata e accurata, talvolta di corsivizzazione delle tradizionali scritture librarie onciale e semionciale con inserimenti corsivi. Nella tradizione paleografica queste scritture sono state definite con il termine precaroline ma, non essendo la carolina derivata da esse, oggi si preferisce definirle più semplicemente ALTOMEDIEVALI. In esse sono stati individuati alcuni elementi comuni:
- a: aperta in alto, con la forma di due c accostate;
- c: anche nella forma crestata;
- i: alta quando si trova all’inizio di parola e talvolta quando ha funzione semivocalica (intervocalica);
- t: frequente anche nella forma con occhiello a sinistra.
Più chiara è invece la individuazione del tipo di luoghi in cui si svolgeva la produzione libraria, che in sostanza avveniva presso alcune nuove fondazioni monastiche (come Bobbio, la Novalesa, Nonantola) ma anche in centri capitolari annessi a vescovadi di antico e alto prestigio (Verona, Lucca, Vercelli).
13.1.1. Scriptoria monastici
Il massimo centro scrittorio dell’Italia settentrionale fu a Bobbio, cenobio fondato dal monaco irlandese Colombano nel 612; nel IX secolo aveva una biblioteca di ca. 700 codici, fra le più grandi dell’epoca. Tra le ragioni dell’importanza di Bobbio certamente si devono indicare i legami con le isole e con la Gallia, ma anche con Pavia, capitale del regno longobardo. Le scritture utilizzate erano le insulari, l’onciale, la semionciale, e inoltre una minuscola di modulo piccolo ricca di elementi corsivi, abbastanza calligrafica, che si riconosce per la presenza di vari elementi insulari. Un esempio è la scriptio superior del palinsesto realizzata a Bobbio nel sec. VIII con testi di Isidoro di Siviglia copiati sopra testi biblici in onciale e in semionciale (Vat. lat. 5763).
Un importante centro scrittorio si sviluppò a Nonantola, monastero benedettino fondato alla metà dell’VIII secolo; tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo lì si formò una tipizzazione della minuscola libraria. Si conosce una ventina di codici caratterizzati da una minuscola larga, rotondeggiante, dal tracciato pesante, dal chiaroscuro obliquo ma privo di spezzettature. Caratteristiche sono la Q maiuscola con uno svolazzo, la r lunga, la e alta e con occhiello, che in parte compaiono anche nella scrittura beneventana. Prodotti a Nonantola nel IX secolo furono il Vat. lat. 9882, con testi di Cesario di Arles, e il Vat. lat. 5951, con il trattato di medicina di Celso.
Si tratta dell’unica scrittura tipizzata minuscola libraria verificatasi in Italia settentrionale prima della carolina, ed ebbe forse una circolazione anche fuori dal monastero di Nonantola; una scrittura con caratteri simili si ritrova infatti in una raccolta di canoni realizzata a Chieti nel secolo IX (Reg. lat. 1997) che mostra analogie anche con la beneventana; anche per questo si è a lungo ritenuto che questa minuscola tipo di Nonantola potrebbe aver esercitato influssi sulla scrittura beneventana, ma oggi si è più propensi a ritenere che sia stata la scrittura beneventana di Montecassino a influenzare quella di Nonantola.
13.1.2. Scriptoria capitolari
Il più antico scriptorium, documentato fin dal secolo VI, fu quello del Capitolo della cattedrale di Verona, dove esiste ancora oggi una biblioteca che, unica al mondo, risale con ininterrotta tradizione al sec. VI (e forse al V). A Verona continuarono a essere prodotti codici in onciale e in semionciale, scrittura che era stata lì introdotta dal vescovo Ursicino nel VI secolo, ma anche in corsiva; la collaudata organizzazione dello scriptorium faceva sì che si mantenesse una certa uniformità nella produzione dei libri, anche quando realizzati con scritture diverse. All’inizio del secolo IX, quello capitolare di Verona fu uno dei primi centri di scrittura ad adottare la scrittura carolina, soprattutto ad opera dell’arcidiacono Pacifico (m. 845) al quale si deve la realizzazione diretta o la direzione dell’opera di copia di almeno 213 manoscritti.
Un caso di assenza di un indirizzo unitario è invece quello dello scrittorio del capitolo di Lucca, almeno a giudicare dall’unico codice certo (il celebre manoscritto Lucca, Biblioteca capitolare, 490). Si tratta di un codice miscellaneo realizzato fra il 796 e l’816 per iniziativa del vescovo Giovanni I, scritto da almeno 40 mani diverse, che adoperarono nel modo più disordinato possibile tutti i tipi di scrittura noti: capitale, onciale, semionciale, corsive di vario genere.
È conosciuta l’esistenza di scriptoria anche presso altre sedi vescovili, ma solo pochi esempi sono rimasti provenienti da Vercelli e da Novara e scarse sono le notizie sull’attività di copia svolta a Tortona, Milano, Monza e in altri centri capitolari dell’Italia settentrionale.