Classici Latini Evoluzione e trasmissione di opere classiche [di M. Buonocore]

Livius, Titus, 59 a.C.-17 d.C.

Costruite sull’avvicendarsi di avvenimenti, personaggi, aneddoti relativi alla storia di Roma, nonostante le sue innegabili potenzialità immaginifiche, nella tradizione manoscritta miniata le Decades di Tito Livio non hanno originato cicli figurativi coerenti e strutturati, che illustrassero il testo enfatizzandone i passaggi e amplificandone il significato. L’opera in origine constava di 142 libri, raggruppati per cicli di 10 anni; si conservano tuttavia le sole Decades I, III e IV: la cospicua dispersione di materiale avvenne probabilmente già nel trasferimento del testo dal rotolo al codice (Reynolds, Livy, pp. 205-214). E proprio tale processo di malriuscita o parziale trasmissione è forse la ragione del mancato sviluppo di un racconto per immagini collegato alla narrazione liviana (Speciale, Tito Livio, pp. 198). Un’assenza resa ancora più evidente dagli esemplari che tramandano l’Ab Urbe condita in edizioni compendiate o sotto forma di epitomi (cfr. ms. Pal. lat. 895; Speciale, Tito Livio, p. 198), prive – o molto povere – di qualsiasi intervento anche solo decorativo e spesso destinate a un uso didattico.

Il testo ebbe tuttavia un’ampia fortuna, tanto da essere coinvolto, nel medioevo tardo, in impegnative operazioni di volgarizzamento, come testimonia il monumentale corpus delle Decades in francese e in tre volumi, mss. Reg. lat. 719, 720, 721, dell’inizio del sec. XVI, ma che tramandano una traduzione degli anni ’50 del Trecento (Manzari, Schede nrr. 154-156, pp. 516-524; per tutti gli aspetti sin qui richiamati, cfr. anche Medieval Manuscripts of the Latin Classics, passim).

A oggi, il più antico esemplare illustrato dell’Ab Urbe condita è il celeberrimo e sontuoso ms. lat. 5690 (Paris, Bibliothèque nationale de France) dei primi decenni del sec. XIV, appartenuto alla collezione libraria di Francesco Petrarca (1304-1374), codice dalla complessa storia critica e ancora al centro del dibattito storiografico (cfr. da ultimi Reliquiarum servator, con bibliografia, e Manzari, Presenze di miniatori, pp. 615-646 e Tomei, Pittori per la miniatura, pp. 353-374, l’uno e l’altro con bibliografia).

Arch.Cap.S.Pietro.C.132

Tra i mss. selezionati per il Latin ClassicThe evolution and transmission of texts of specific works, tutti rappresentativi di una produzione di alto livello e di una committenza di rango, l’Arch. Cap. S. Pietro. C. 132 è il più risalente, databile cioè alla fine del sec. XIV; esso unifica in un solo volume le tre Decades note e fu confezionato a Padova per Francesco da Carrara il Vecchio (m. 1393). Il suo apparato decorativo è ricco di iniziali policrome caratterizzate da un diffuso impiego dell’oro in foglia, spesso molto consistente, ma i veri e propri interventi illustrativi sono riservati alle sole pagine di incipit che introducono alle principali partizioni testuali. Le quattro miniature tabellari mostrano sempre un generico scontro, benché vivace, tra cavalieri, rappresentati con armature e bardature tardomedievali, e che senza dubbio derivano una certa suggestione visiva dai cicli a corredo dei romanzi cavallereschi (cfr. Perriccioli Saggese, I romanzi cavallereschi miniati, passim), molto in voga in quegli anni all’interno delle corti cittadine. Unica deroga a tale mise-en-page è nell’ultima illustrazione (f. 193r), nella quale la giostra condivide lo spazio con una scena di costruzione di città, esplicito riferimento all’innalzamento di Roma, benché sia stato impiegato un modello iconografico da secoli molto comune e facilmente adattabile ai più diversi contesti.

Riflessi di gusto cortese si possono inoltre riconoscere nell’Urb. lat. 426, da collegare all’ambiente degli Sforza di Pesaro (Guernelli, Tracce della biblioteca sforzesca, pp. 156-170) e collocabile entro il primo quarto del sec. XV: nella pagina di incipit il codice esibisce l’incontro tra un ricco signore e un sovrano, l’uno e l’altro armati mentre incedono su cavalcature dai preziosi finimenti.

La maggiore fortuna del Livio miniato è però circoscritta al solo Quattrocento: l’opera si diffuse soprattutto nei circoli umanistici, sovente collegati alla Curia romana e agli ambienti pontifici (cfr. Billanovich, La tradizione del testo, passim). È il caso dei tre esemplari che raccolgono l’intero corpus dell’Ab Urbe condita, mss. Borgh. 368, Vat. lat. 1848 e Vat. lat. 1853, prodotti probabilmente nell’Urbe alla fine del secolo e appartenuti al protonotario apostolico Ludovico Agnelli (m. 1499), importante collezionista di libri. Si tratta di codici con un apparato decorativo e illustrativo di un certo rilievo, ma limitato anche in questo caso alle pagine di incipit – costruite secondo il linguaggio dell’antiquaria padano-romana, modalità espressiva molto in voga in quegli anni –, mentre tra i fogli una sequenza di iniziali in lamina d’oro ornate da fioroni o da intrecci fitomorfi policromi richiama l’attenzione sui principali snodi testuali.

Qualcosa di analogo accade per il Livio conservato nella libraria di Federico da Montefeltro, mss. Urb. lat. 423, 424, 425: anche in essi si espone la totalità delle Decades note, illuminate da un’ornamentazione che non si discosta, per impostazione, da quanto detto sino a ora. Alle pagine di incipit è riservata la maggiore enfasi visiva – con gallerie di busti di generali, ritratti dell’autore, miniature tabellari con scene correlate ai contenuti –, mentre lo scorrere dei fogli è di tanto in tanto interrotto da iniziali a bianchi girari.

Del tutto peculiare, in conclusione, il ms. Ferr. 562, anch’esso degli inizi del sec. XV, qualificato da un apparato puramente decorativo, un esemplare che sembra quindi rappresentare il punto più estremo del mancato sviluppo di cicli figurativi nella tradizione miniata delle Decades.