Vat.lat.1848
Informazioni sul manoscritto
- Resource type:
- Manuscript
- Collection:
- Vat.lat.
- Segnatura:
- Vat.lat.1848
- Biblioteca:
- Biblioteca Apostolica Vaticana
- Datazione:
- sec. XV ex
- Data inizio:
- 1476
- Data fine:
- 1500
- Paese:
- Italia
- Regione:
- Italia centrale
- Localita:
- Roma (?)
- Materiale:
- Membr.
- Altezza:
- 377
- Larghezza:
- 255
- Numero fogli:
- II. 226. II
- Nota generale:
- Titus Livius, Ab Urbe condita (Decas III).
Descrizione
- Bibliography:
- Marucchi, Stemmi di possessori 1964, pp. 30-95; Manuscrits classiques, III.1 pp. 424-425; Vedere i classici, pp. 496-498.
- Collazione:
- 23 fascicoli: 1-22 quinioni (ff. 1-10, 11-20, 21-30, 31-40, 41-50, 51-60, 61-70, 71-80, 81-90, 91-100, 101-109 [incongruenza dovuta al salto di numerazione tra il 103 e il 104, ma il fascicolo è regolare], 110-119, 120-129, 130-139, 140-149, 150-159, 160-169, 170-179, 180-189, 190-199, 200-209, 210-219); 24 quaternio (ff. 220-227); l’ordine corretto dei ff. 179-210 sarebbe in realtà 179, 200-209, 180-189, 210 (Vedere i classici, pp. 496-498); bianchi ma rigati i ff. 226r-227v; fogli di guardia membr.
- Impaginazione:
- A piena pagina (mm 246x145) su 37/38 ll./rr., talvolta presenti capoversi in vedetta; rigatura a secco spesso ripassata alla mina, visibile su entrambi i lati del foglio (tipo Derolez 32).
- Foliazione:
- Manuale moderna a inchiostro bruno in alto a destra, non numerato il foglio tra gli attuali ff. 103 e 104; non indicati i ff. I-II anteriori, mentre il f. II posteriore è segnato come 229, a lapis in alto a destra da mano contemporanea; il f. Ir anteriore e il f. IIv posteriore erano probabilmente le controguardie in una precedente legatura.
- Scrittura:
- Umanistica
- Scrittura - Nota:
- Il copista unico, a inchiostro bruno scuro, è il medesimo che lavora ai mss. Borgh. 368 e Vat. lat. 1853; nei primi 14 fogli, annotazioni a margine a inchiostro nero di Marco Lucido Fazzini, come nel Borgh. 368 (Vedere i classici, pp. 496-498); spesso visibili nei margini esterni le letterine guida per le iniziali maggiori; le rubriche a inchiostri alternati sono da assegnare alla mano di Bartolomeo Sanvito (de La Mare - Nuvoloni, Bartolomeo Sanvito, p. 243).
- Decorazione - Nota:
- 1 pagina di incipit (f. 1r), su tre margini entro doppio listello in foglia d’oro cornice a candelabre, con putti, festoni, clipei; nei cantoni immagini allegoriche, a bas-de-page stemma di Giulio II (1503-1513) affiancato da genietti e creature ibride; la tavolozza pittorica è nei toni del blu, del verde, del rosa, del rosso, dell’ocra. 1 miniatura tabellare (f. 1r, mm 170x132). 10 iniziali maggiori con scrittura distintiva in oro o in rosso (mm, media 59x60), 1 a bianchi girari su fondo policromo (blu, verde, rosa) con corpo in foglia d’oro (f. 1r); 9 con corpo in foglia d’oro su campo riquadrato in lamina metallica aurea e decorato con elementi fitofloreali policromi (rosa, blu, verde, nero, porpora, indaco; ff. 24r, 48v, 70v, 91v, 112r, 136r, 161v, 195r, 207v). Incipit ed explicit in capitale in inchiostro bruno-mattone o violaceo, mancano fra i libri VIII e IX (f. 195r) e fra i IX e X (f. 207v).
- Legatura -Nota:
- Su assi di legno con piatti rivestiti in pelle, probabilmente rossa; tagli dorati e impressi; sovraccoperta in cartoncino verde.
- Stato di conservazione:
- Buono, qualche macchia, qualche risarcimento a pergamena; a f. 112r è visibile la base metallica su cui era stato applicato l’oro a mecca.
- Segnature di fascicoli:
- Alfanumeriche a colore sulla prima parte del fascicolo, sul recto in basso a destra, sovente rifilate.
- Verba reclamantia:
- Costanti sul verso, in verticale entro doppia riga di giustificazione.
- Stemma:
- f. 1r, Ludovico Agnelli, arcivesc. di Cosenza, 1497-1499 (ma non più visibile); Giulio II (1503-1513).
- Nota:
- Il ms. Vat.lat.1848 è la seconda parte di un Tito Livio in tre volumi (Manuscrits classiques, III.1 p. 425), cf. mss. Borgh. 368 e Vat. lat. 1853.
- Altro nome:
- Derolez, Albert [person]
Phosphorus, Lucidus Maffeus, vesc. di Segni, m. 1503 [glossator]
Agnelli, Ludovico, arciv. di Cosenza, m. 1499 [client]
Iulius PP. II, 1443-1513 [owner]
della Gatta, Bartolomeo, 1448-1502 [artist]
Sanvito, Bartolomeo, 1435-1511 [artist] - Lingua:
- Latino.
- Alfabeto:
- Latino.
- Storia:
- Ai ff. 1r-v, 225v timbri della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Testo del curatore
Manoscritto di medio formato e confezionato con pergamena di buona qualità ben lavorata, il Vat. lat. 1848 tramanda la Decas III di Tito Livio; insieme ai mss. Borgh. 368 (Decas I) e Vat. lat. 1853 (Decas IV), costituisce l’intero corpus noto dell’Ab Urbe condita. Si tratta di codici particolarmente rilevanti sia per le personalità coinvolte nel loro confezionamento sia perché pongono intriganti questioni sulla produzione del libro miniato a Roma nel secolo XV.
Essi furono copiati da un unico scriptor e, nonostante siano stati concepiti come esemplari di apparato, accolgono nei margini le annotazioni di Marco Lucido Fazini (nel ms. Borgh. 368, fino a f. 63v; assenti nel ms. Vat. lat. 1853, tranne sporadici notabilia); egli fu uno degli intellettuali umanisti che a Roma, dagli anni ’60 del Quattrocento, si raccolsero attorno all’Accademia animata da Pomponio Leto (Piacentini, Note storico-paleografiche 2007, p. 118; Accame, Pomponio Leto, pp. 711-716, l’uno e l’altro con bibliografia). Phosphorus (il soprannome latino assegnatogli proprio nell’ambito dell’Accademia) aveva condiviso con Pomponio, oltre che i molti interessi di studio, anche la prigionia a Castel Sant’Angelo, dove erano stati rinchiusi tra il 1468 e il 1469 perché ritenuti, tra le altre cose, promotori di una congiura contro Paolo II Barbo (1464-1471; Piacentini, Note storico-paleografiche 2007, pp. 93-94; Accame, Pomponio Leto, p. 712).
Ma per tornare ai manoscritti, essi furono confezionati per volontà di Ludovico Agnelli; prelato mantovano e famulus del cardinale Francesco Gonzaga a partire dal settimo decennio del secolo XV, grazie al favore di papa Sisto IV Della Rovere (1471-1484) rivestì diverse cariche all’interno della Curia romana (protonotario apostolico, chierico della Camera Apostolica, governatore del Patrimonium Sancti Petri, legato presso l’imperatore Federico III), impegni che gli permisero comunque di rimanere in strettissimi rapporti con il porporato (Martelli, Bartolomeo della Gatta, p. 240, 244). Un’intesa personale e di affinità politiche che emerge anche dal loro profilo culturale: l’uno e l’altro furono infatti collezionisti di codici, manufatti spesso realizzati dai medesimi artefici del libro che gravitavano – o che erano formalmente inclusi – nella familia del cardinale mantovano, come Bartolomeo Sanvito (cfr. il suo intervento di calligrafo nel ms. Borgh. 368), in sodalizio artistico con Gaspare da Padova (per quest’ultimo aspetto cfr. ms. Vat. lat. 3255; non è escluso, ad esempio, che Ludovico Agnelli possa aver giocato un qualche ruolo nell’allestimento del monumentale Omero bilingue, ms. Vat. gr. 1626, appartenuto appunto a Gonzaga, cfr. Martelli, Bartolomeo della Gatta, p. 246, con bibliografia).
Nei manoscritti vaticani e borghesiano l’appartenenza al protonotario apostolico è segnalata dal suo stemma nelle pagine di incipit (inquartato al I e al IV di blu con agnello rampante d’argento, al II e al III tagliato d’oro, rosso e argento, con tre stelle d’oro nel taglio centrale, sormontato dal cappello a sei fiocchi per parte, Ead., Bartolomeo della Gatta, p. 242; tranne che per il ms. Vat. lat. 1848, sostituito dal blasone di papa Giulio II [1503-1513]), elemento che suggerisce a Cecilia Martelli di collocare la confezione dei tre manoscritti in una data di poco successiva al 1472 – forse alla metà del decennio –, anno dal quale Agnelli ottenne appunto la carica di protonotario (Ead., Bartolomeo della Gatta, p. 247). Il corpus testimonia comunque la volontà del prelato di avere nella sua biblioteca l’intera opera liviana (per la sua collezione cfr., tra gli altri, il ms. Vat. lat. 1533, che condivide in parte il miniatore con il ms. Vat. lat. 1853 [Ead., Bartolomeo della Gatta, p. 242]; il ms. Vat. lat. 1835, entrato poi anch’esso nella collezione di Giulio II; il ms. King’s 24 della British Library di Londra; il ms. 139 della Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli).
Seppure indubbiamente confezionati in un medesimo lasso di tempo, all’omogeneità del formato e dell’impostazione grafica dei tre esemplari dell’Ab Urbe condita non corrisponde un’analoga uniformità negli apparati illustrativi ed esornativi. Il corredo iconografico dei codici fu infatti assegnato ad almeno tre maestri diversi (varrebbe poi la pena di riflettere in tal senso anche sulle gallerie di iniziali decorate), che quindi impiegarono linguaggi diversi (anche se, ad esempio, nei frontespizi dei mss. Vat. lat. 1848 e Vat. lat. 1853 si può riconoscere un modo comune di organizzare lo spazio della pagina, Martelli, Bartolomeo della Gatta, p. 242). Una peculiarità che, come si accennava in apertura, suggerisce interessanti considerazioni sulla produzione del libro miniato a Roma nel Quattrocento. È stato infatti proposto che la realizzazione della serie liviana di Agnelli sia avvenuta all’interno di uno scriptorium (Ead., Bartolomeo della Gatta, p. 242): un’ipotesi certo da condividere se tuttavia con questo termine si vuole intendere non necessariamente un luogo fisico, ma piuttosto un medesimo ambiente culturale nel quale era possibile, per le personalità al lavoro, scambiare suggestioni visive, favorire contaminazioni formali, far circolare modelli. La scelta di affidare la commissione a tre miniatori, che forse svolsero la loro attività in contemporanea sui tre esemplari, può essere inoltre collegata alla necessità per Agnelli di avere il Livio completo in tempi relativamente rapidi.
La critica è concorde nel ritenere il Vat. lat. 1848 opera di Bartolomeo della Gatta (De Marchi, Identità di Giuliano Amadei, pp. 94-95; Dillon Bussi, L’omaggio di Bartolomeo della Gatta, pp. 37-38), e secondo Cecilia Martelli si può «individuare» in questo codice, databile probabilmente alla metà degli anni ’70 del Quattrocento, «l’esemplare più antico a noi pervenuto della sua attività di miniatore», in un momento quindi precedente alla «sua più nota partecipazione alla decorazione della Cappella Sistina» (Ead., Bartolomeo della Gatta, pp. 240, 250 e in questo suo precoce coinvolgimento romano nella produzione del libro illustrato, la studiosa si chiede se il tramite non possa essere stato proprio il miniatore Giuliano Amadei, camaldolese come Bartolomeo e già da tempo al servizio dei pontefici).
La pagina di incipit è costruita con il linguaggio dell’antiquaria, declinato tuttavia con un peculiare accento che è quello romano – come dimostra l’originale gioco di candelabre, in una profusione di putti, di nastri, di festoni carichi di frutti – combinato con ricordi toscani: la definizione dello spazio e il trattamento della luce derivano una certa suggestione da Piero della Francesca, mentre «il pittoricismo denso e compatto» rimanda ai modi di Verrocchio (Ead., Bartolomeo della Gatta, p. 249); ed è in questo foglio che Cecilia Martelli ha voluto riconoscere i fondamenti in nuce della ricerca di Bartolomeo, che farà del rapporto tra lo spazio riservato al testo e quello destinato all’immagine un filone della sua riflessione artistica, fino a giungere a una ancor maggiore «definizione luministica delle immagini, pervase da una luce sempre più diffusa e velata» (Ead., Bartolomeo della Gatta, p. 249). Lo spazio è articolato sulla dialettica tra pieni e vuoti: la costruzione in prospettiva della loggia con velarium, entro la quale siedono i Cartaginesi, supera la bidimensionalità del foglio grazie all’apertura di un vero e proprio cubo spaziale nella superficie della pagina; le ombre dei genietti reggifestone sull’architrave, insieme a quelle dei nastri, contribuiscono, in maniera quasi impercettibile ma avvertita senza dubbio dall’occhio, al gioco illusionistico, che si replica nelle nicchie che ospitano i tre putti; il listello in oro che taglia orizzontalmente la costruzione architettonica e gli angoli estremi dell’architrave, eccedenti dal perimetro del riquadro, di certo enfatizzano tali aspetti.
Il rapporto con l’antico, inteso come ripresa di modelli formali e come recupero di temi classici, è evidente – solo per proporre un esempio – nel reiterarsi della presenza di Amore nel margine esterno: bendato e intento a brandire il suo arco tra le faci accese, replicato nel clipeo appena al di sotto, con una sorta di piccola bisaccia a forma di cuore che gli copre le terga, a cavallo di un destriero lanciato al galoppo (Eros qualifica peraltro anche il bas-de-page della pagina di incipit del ms. Borgh. 368).
La collezione libraria di Ludovico Agnelli fu verosimilmente smembrata poco dopo la sua morte, avvenuta per avvelenamento nel 1499 forse per volontà di Alessandro VI Borgia (1492-1503); i suoi manoscritti ebbero sorti diverse: il Vat. lat. 1848, come dimostra lo stemma a bas-de-page, entrò prestissimo nella raccolta di Giulio II Della Rovere (1503-1513) e da essa confluì poi nella Biblioteca Vaticana. È infatti possibile seguire il percorso del codice attraverso gli inventari: quello della biblioteca privata del papa registra un «Titus Livius de bello Punico, ex membranis, in velluto viridi»; mentre quello del 1533 (ms. Vat. lat. 3951) segnala tra i codici additi (aggiunti) nella camera parva secreta un «Titus Livius de bello Punico, ex membranis in tabulis. periculo» (il termine si riferisce «all’ultima parola vergata sul recto del primo foglio», Martelli, Bartolomeo della Gatta, pp. 246-247; per gli inventari cfr. Librorum Latinorum Bibliothecae Vaticanae, nr. 2771, p. 319; per la storia della Biblioteca cfr. da ultimi Manfredi, La nascita della Vaticana, pp. 217-236 e Rita, Per la storia della Vaticana, pp. 237-277), a testimonianza della pratica comune di sostituire la legatura in coincidenza con il cambio di luogo di conservazione e spesso anche di possessore (Ead., Bartolomeo della Gatta, pp. 246-247).
Per gli altri esemplari di Livio illustrato cfr. i mss. Borgh. 368, Ferr. 562, Urb. lat. 423, Urb. lat. 424, Urb. lat. 425, Urb. lat. 426, Vat. lat. 1853.