Nel Commentario de la vita del signore Federico duca d’Urbino Vespasiano da Bisticci racconta di aver visitato la biblioteca urbinate nel 1482, poco prima della morte del duca (avvenuta il 10 settembre 1482), quando il suo allestimento era di fatto concluso. Il tono entusiastico utilizzato non è dovuto solo alla preziosità materiale dei volumi, ma anche al loro contenuto e alla completezza della collezione per l’ampiezza delle facultates (materie) rappresentate:
Poco tempo innanzi ch’egli [Federico] andassi a Ferara [1482] sendo a Urbino colla sua Signoria, et avendo gl’inventari di tutte le librarie d’Italia, cominciando a quella del papa, di Firenze di Santo Marco, di Pavia, infino a avere mandato in Inghilterra per lo inventario della libraria dello studio Ausoniense, riscontrando di poi con quello del duca, tutti pecano in una cosa, d’avere una medesima opera infinite volte, ma non avere di poi tutte l’opere d’uno scrittore finite come questa, né v’era iscritori in ogni facultà come in questa (Vespasiano da Bisticci, Le Vite, I, pp. 398-399).
Secondo Vespasiano, una caratteristica rendeva unica la raccolta di Federico: le opere di ciascun autore non solo erano complete, ma anche prive di duplicati, al contrario di altre collezioni dove era facile trovare sia lacune, sia diversi esemplari delle medesime opere (per confronti con altre biblioteche dell’epoca, come quella di San Marco a Firenze e la Vaticana di Niccolò V, cfr. Manfredi, Che lettere!, pp. 31-60). Se nella realtà la raccolta non è completamente priva di duplicati, certamente l’organicità ne è una caratteristica fondamentale e la completezza veniva ricercata mediante l’allestimento di grandi sillogi di opere in modo organizzato.
Anche le precise scelte di contenuto conferiscono alla collezione straordinaria importanza culturale. Nella Vita di Federico, Vespasiano ne offre una sommaria rassegna – articolata per materie, e al loro interno per autori –, che trova una generale corrispondenza nell’Indice vecchio (Urb. lat. 1761, ff. 1r-126r), inventario topografico redatto dopo la morte di Federico.
Urb. lat. 1761, f. 1r
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L’ordinamento di fondo si ispira al Canone bibliografico elaborato dall’umanista Tommaso Parentucelli di Sarzana, futuro papa con il nome di Niccolò V, per Cosimo dei Medici, che intendeva usarlo per la biblioteca del convento domenicano di San Marco a Firenze (su di esso cfr. Blasio, Lelj, Roselli, Un contributo alla lettura del canone, pp. 125-165; de La Mare, New Research, pp. 440-444; Vasoli, La biblioteca progettata da un papa, p. 219-239; Manfredi, Che lettere!, pp. 45-56, in particolare pp. 49-50).
Il suo uso ad Urbino è dichiarato apertamente da Vespasiano nella Vita dedicata al pontefice, e forse dovuto proprio alla mediazione del cartolaio:
Et avendo avuto a ordinare una libraria in tutte le facultà, non era chi n’avessi notitia se non maestro Tomaso. Et per questo Cosimo de’ Medici avendo a ordinare la libreria di Sancto Marco, iscrisse a maestro Tomaso, gli piacessi fargli una nota come aveva a stare una libreria. Mandogli in ordine che sta in modo che chi non ha avuto quello inanzi per essere con grandissimo ordine (sic). Et scrisela di sua mano et mandolla a Cosimo. Et così seguitò l’ordine suo in queste dua librarie di San Marco et della Badia di Fiesole, et il simile s’è seguito in quella del duca d’Urbino, et quella del segnore Alexandro Isforza. Et chi arà pe’ i tempi a fare libraria, non potrà fare sanza questo inventario (Vespasiano da Bisticci, Le Vite, I, pp. 46-47).
L’Indice vecchio consente di conoscere e seguire l’ordine con il quale i circa 900 codici si trovavano disposti sulle «scanzie» della biblioteca. La collezione si apre con l’ampia sezione latina (Urb. lat. 1761, ff. 1r-88r), bipartita in biblioteca sacra (ff. 1r-30v [nrr. 1-204: cfr. Stornajolo, Cod. Urb. Graeci, pp. LIX-LXXVIII]) e biblioteca profana (ff. 31r-87v [nrr. 205-656: ibidem, pp. LXXVIII-CXXXIX]), secondo l’impostazione offerta dal Canone di Parentucelli (cfr. Manfredi, Che lettere!, pp. 46, 49-50).
Urb. lat. 52, f. 1v - Urb. lat. 10, f. 175r
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Ai testi sacri [cfr. Urb. lat. 1-2, 9, 10] seguono, secondo un ordine cronologico, i Padri della Chiesa (prima quelli latini [cfr. Urb. lat. 52, con opere di Girolamo], poi quelli greci in traduzione latina) e i teologi, scolastici e moderni. Agostino [cfr. Urb. lat. 74] e Tommaso [cfr. Urb. lat. 136] sono gli autori maggiormente rappresentati e insieme le due sezioni – patristica e teologica – costituiscono circa un terzo della collezione latina. Molti sono i volumi miscellanei, la maggior parte di matrice fiorentina, per lo più realizzati dopo il 1474 o intorno a quella data.
Merita menzione il sontuoso Urb. lat. 151, realizzato invece ad Urbino, latore di tre opere di Francesco della Rovere, futuro pontefice con il nome di Sisto IV, che avrebbe conferito a Federico il titolo ducale e che è uno dei pochi personaggi contemporanei ad essere raffigurato tra gli uomini illustri dello Studiolo (cfr. Fenucci-Simonetta, The Studiolo in the “Cube”, pp. 88-99 e fig. 68).
Dal punto di vista della consistenza, la sezione profana è nettamente prevalente e si apre, conformemente al Canone, con la filosofia di matrice aristotelica: si succedono Aristotele e i suoi commenti, nelle traduzioni vecchie e nuove [cfr. Urb. lat. 1324, latore dell’Ethica Nicomachea nella traduzione di Giovanni Argiropulo], Platone [cfr. Urb. lat. 185, con i Dialoghi tradotti da Marsilio Ficino] e l’Avicenna latino [cfr. Urb. lat. 187].
Nell’Indice vecchio si susseguono poi le seguenti sezioni: «Medici, Juristae, Cosmographi Historici Poetae Grammatici et reliqua» (Urb. lat. 1761, f. 52r); ma è anche possibile individuare una serie di trattati tecnico-scientifici relativi all’astrologia, alla matematica, all’architettura, all’arte militare, altamente connotativi della collezione di Federico, che voleva offrire di sé l’immagine dell’abile condottiero, ma anche quella del mecenate cultore delle arti.
Particolarmente indicativi dei suoi interessi sono certamente i trattati militari, tra i quali si ricordano l’Urb. lat. 1221, realizzato ad Urbino prima del 1474, latore di testi classici sull’arte della guerra (Frontino e Vegezio), e l’Urb. lat. 281, il testimone più antico del De re militari di Roberto Valturio – raccolta di notizie sull'arte della guerra nell'età classica e sui requisiti del perfetto condottiero –, realizzato nel 1462 per Jacopo degli Anastagi di Borgo San Sepolcro. In queste sezioni si trovano infatti diversi codici non commissionati direttamente, ma già appartenuti ad altri, come capita anche per il Galeno dell’Urb. lat. 248. Si ricorda inoltre la presenza nella collezione del De architectura di Leon Battista Alberti (Urb. lat. 264).
Urb. lat. 1221, f. 2r - Urb. lat. 281, ff. 147v-148r
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In generale, i classici pagani – comprese le traduzioni dal greco – furono tra i primi ad essere commissionati a Firenze, prevalentemente ante 1474 e caratterizzati dai tipici bianchi girari, come l’Urb. lat. 350 (il Virgilio poi arricchito ad Urbino in età ducale da una miniatura tabellare realizzata Guglielmo Giraldi). Anche ad Urbino tuttavia vennero realizzati codici contenenti testi classici, come il Terenzio dell’Urb. lat. 651, l’Omero tradotto da Lorenzo Valla dell’Urb. lat. 349, vergati entrambi da Federico Veterani rispettivamente nel 1471 e nel 1480.
Urb. lat. 350, f. 2r - Urb. lat. 651, f. 3r
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Nell’ambito delle opere classiche, si riscontra una significativa presenza dei testi storici – originali e tradotti dal greco –, i cui protagonisti, con le proprie gesta, dovevano essere modello di vita attiva e di principi morali, così come gli insegnamenti politici offerti negli scritti filosofici dovevano essere utili nella pratica del buon governo. Anche in questo caso diversi manoscritti furono confezionati ad Urbino, come la Ciropedia di Senofonte dell’Urb. lat. 410 o il fastoso Curzio Rufo vergato dal raffinato Matteo Contugi (Urb. lat. 427); un certo numero di codici fu copiato da Federico Veterani, che, oltre ai famosi volumi di Livio (Urb. lat. 423, 424, 425), vergò anche Appiano (Urb. lat. 419 e 420), per il quale afferma, in una nota al f. 161r dell’Urb. lat. 419, che fu il primo manoscritto da lui realizzato (sebbene rivendichi lo stesso primato in una nota aggiunta al Terenzio dell’Urb. lat. 651, f. 136v, datato ugualmente 1471).
Per ciò che riguarda le opere retoriche, è ampiamente rappresentato Cicerone (cfr. Urb. lat. 328), mentre urbinate è la produzione di volumi latori di testi legati alla corte, come ad esempio Antonio Campano (cfr. Urb. lat. 324, 326 – uno di mano di Contugi, l’altro di Veterani, entrambi miniati da Giovanni Corenti), che aveva pronunciato l’orazione funebre per la morte di Battista Sforza, la giovane consorte di Federico prematuramente scomparsa. L’ultima parte dell’inventario menziona infine un gruppo di opere non omogenee.
Il Canone è certamente un modello per la biblioteca federiciana, ma, rispetto ad esso, vi sono anche significative novità, legate alla specifica tipologia della collezione urbinate quale raccolta signorile: oltre all’attenzione per l’aspetto esteriore del codice, essa si distingue per l’apertura ai testi contemporanei, i quali trovano significativamente posto accanto ai classici, che certamente rimangono prevalenti, in un equilibrio nuovo tra autori antichi e moderni (cfr. Manuscrits classiques II.2, Riou, Fonds Urbinate, pp. 518-521; Peruzzi, Cultura potere immagine, pp. 44-50; Ead., «Lectissima politissimaque volumina», pp. 338-354, con bibliografia precedente).
Significativa è la presenza di umanisti latini e di opere in volgare, prima fra tutte la Commedia (Urb. lat. 365), nella sontuosa copia vergata ad Urbino da Matteo Contugi e miniata da Gugliemo Giraldi, almeno in parte a Ferrara, lasciato poi in sospeso e non ancora ultimato ai tempi della stesura dell’Indice vecchio, che lo include tra i volumi da rilegare (Urb. lat. 1761, f. 118r). Dante e Petrarca (Urb. lat. 681) trovano dunque posto vicino ai grandi poeti dell’antichità, all’Omero greco (Urb. gr. 136) e latino (Urb. lat. 349, nella traduzione del Valla) e a Virgilio (Urb. lat. 350). Accanto agli oratori per antonomasia, Demostene (Urb. lat. 337, nella traduzione del Valla) e Cicerone (Urb. lat. 328), compaiono ad esempio le orazioni di Giovanni Antonio Campano (Urb. lat. 324).
Urb. lat. 365, f. 6v - Urb. lat. 681, f. 163v
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Se tra le opere storiche non può mancare la Storia di Roma di Tito Livio (Urb. lat. 423, 424, 425, 426), la collezione accoglie anche le Historiae Florentinae di Poggio Bracciolini (Urb. lat. 491); allo stesso modo sono ugualmente presenti il De gestis Alexandri magni di Curzio Rufo (Urb. lat. 427) e la Vita et res gestae Bracii Fortebracci – il signore di Perugia e capitano di ventura Braccio Fortebracci di Montone – dello stesso Campano (Urb. lat. 326). Nella sezione latina sono inoltre ospitati anche autori greci in traduzione, come Senofonte e Appiano tradotti da Francesco Filelfo e Pier Candido Decembrio (Urb. lat. 410, 419 e 420).
Urb. lat. 427, f. 2r - Urb. lat. 324, f. 1r
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Oltre alla presenza di diversi manoscritti latori di componimenti dedicati al signore di Urbino per diverse occasioni (come l’Urb. lat. 373 o l’Urb. lat. 1193), in altri casi Federico diventa egli stesso personaggio all’interno dei testi ospitati nei codici, come nell’Urb. lat. 899, che contiene le Nozze di Costanzo Sforza e Camilla Marzano d’Aragona, celebrate nel 1475; il manoscritto potrebbe essere entrato nella biblioteca urbinate come dono della coppia.
La sezione greca ha una consistenza minore rispetto a quella latina: è costituita da 168 manoscritti (Urb. lat. 1761, ff. 88v-100r), di cui 38 conservati non nella sala principale, ma separatamente in un armadio («Libri Graeci In armario»: Urb. lat. 1761, ff. 121v-123v). L’ordinamento è il medesimo, ma la serie sacra è molto ridotta: le Sacre Scritture e i Padri della Chiesa rappresentano un decimo della raccolta, mentre i classici pagani – soprattutto storici, oratori, filosofi e letteratura tecnica – ne costituiscono il fulcro (cfr. Bravi, I manoscritti greci, pp. 41-45; D’Aiuto, Urbinati greci, pp. 549-550; Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina», p. 351).
I codici commissionati direttamente da Federico sono proporzionalmente in numero inferiore rispetto alla sezione latina (Urb. gr. 136); molti di essi sono di mano dello scriba Giovanni Scutariota, attivo in ambito fiorentino (si veda, ad esempio, il Salterio trilingue Urb. lat. 9). Un alto numero di volumi è costituito da acquisti antiquari – alcuni di notevole valore (Urb. gr. 2, sec. XII) – o da codici provenienti da altre collezioni (come quella dell’umanista fiorentino Palla Strozzi o dell’umanista riminese Angelo Vadio), databili tra il IX e il XV secolo.
La sezione ebraica consta di 82 manoscritti (Urb. lat. 1761, ff. 101r-107r; al numero 83 si trova un Evangelium Sirorum lingua et characteribus eorum). Si è tradizionalmente ritenuto che essi giunsero a Urbino in seguito alla conquista di Volterra, come bottino di guerra ottenuto da Federico dopo la conquista della città nel 1472, ma è stato più recentemente messo in rilievo che molti codici appartennero alla biblioteca di Menahem ben Aaron di Volterra, identificato con il banchiere Emanuele da Volterra, che fu messa in vendita in quegli anni, poco dopo la sua morte, avvenuta tra il 1466 e il 1467; è dunque possibile che siano stati acquistati (cfr. Proverbio, Notes on the Diaspora, pp. 51-60; Bianchi, I manoscritti ebraici, pp. 47-51; Proverbio, Urbinati ebraici, pp. 545-549; Peruzzi, «Lectissima politissimaque volumina», pp. 351-352). Oltre ai codici appartenenti a questa sezione, si ricorda anche lo splendido Salterio trilingue, in latino, greco ed ebraico (Urb. lat. 9), miniato da un’anonimo artista al quale, proprio per aver impreziosito questo codice, è stato attribuito il nome di Maestro del Salterio di Federico da Montefeltro.
Nonostante l’aspetto quadrilingue (latino, volgare, greco ed ebraico), la collezione è dunque in realtà incentrata sul latino. In generale, l’attenzione per l’aspetto esteriore del codice non trova corrispondenza nell’interesse per il testo, spesso scorretto (con poche postille), apografo di codici recentiores (molti antigrafi erano di S. Marco, copiati con l’autorizzazione di Lorenzo de’ Medici, come dimostrano alcune lettere scambiate tra Federico e il signore di Firenze, cfr. Franceschini, Figure, pp. 139-142; per il rapporto tra copia e antigrafo cfr. Manfredi, Che lettere!, pp. 50-56); i manoscritti federiciani non hanno dunque alto valore testuale.
La disposizione dei volumi e la relativa classificazione era inoltre compendiata in alcuni versi, tre distici, posti sulle pareti della sala del Palazzo Ducale che ospitava la biblioteca (editi da Guasti, Inventario della Libreria Urbinate, VI, pp. 133-134, e da lui attribuiti a Federico Veterani; cfr. anche Michelini Tocci, Agapito, bibliotecario, pp. 256-257):
Si cupis hic positi quonam sint ordine libri / Discere, qui transis, carmina pauca lege./ Dextera Sacrorum, Iurisque volumina servat, / Philosophos, Physicos, nec Geometer abest. / Quicquid Cosmographi, quicquid scripsere Poetae / Historicique omnes dat tibi laeva manus.