La Biblioteca di un 'principe umanista' Federico da Montefeltro e i suoi manoscritti [di M.G. Critelli]

Esempi di legature originali

Si presenta di seguito un’analisi di quattro legature originali quattrocentesche, relative agli Urb. lat. 326, 328, 419, 427, nell’ottica di inquadrare storicamente il contesto i cui i manoscritti sono stati prodotti.

L’indagine – che non vuole essere un esame sistematico dell’intera collezione – ha per oggetto prevalentemente la decorazione, più che le parti strutturali della legatura, sia perché due dei quattro codici hanno subìto in passato interventi di restauro non-conservativi, sia perché gli studi sugli elementi strutturali non hanno ancora raggiunto risultati in grado di offrirci un sufficiente grado di dettaglio cronologico e geografico.

La coperta dell’Urb. lat. 328 presenta nella cornice più esterna un fregio fitomorfo, ottenuto con l’impressione di un ferro utilizzato anche nel Vat. lat. 3005 e nell’Urb. lat. 203, codici questi che risultano attribuiti nella loro confezione all’ambiente fiorentino (cfr. de la Mare, New Research, pp. 436, 487, 524), da cui nella collezione di Federico da Montefeltro giunsero molti codici, soprattutto commissionati a Vespasiano da Bisticci. La decorazione della coperta conferma questa provenienza, costituendo, per ferri utilizzati e schema compositivo, una tipica legatura alla fiorentina. Essa si presentava per lo più in pelle, con decorazioni inizialmente a secco e solo in un secondo momento in oro e riproponeva fregi di origine moresca, quali nodi e cordami, ravvivati dai cerchielli «in uno stile raffinato dal senso rinascimentale delle proporzioni» (Macchi - Macchi, Dizionario illustrato della legatura, p. 184). I cerchielli, dorati o decorati con pasta di cera colorata compaiono riuniti a formare motivi triangolari, anziché sparsi come nell’uso tardogotico; nell’Urb. lat. 328 essi formano una raggiera intorno ai rosoni centrali. I nodi si presentano sotto forma di brevi barrette dritte, curve a “s” o a uncino, perlate o tratteggiate, generalmente riunite a formare numerose e svariate combinazioni a intreccio (Macchi - Macchi, Dizionario illustrato della legatura, p. 38); nell’Urb. lat. 328 i nodi decorano i due rosoni centrali.

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Urb. lat. 328, piatto anteriore

La presenza di elementi moreschi testimonia la grande vivacità dei rapporti politici, culturali e commerciali tra il Sultanato mamelucco di Egitto e Siria e l’Italia, molto vivi nella seconda metà del XV secolo, in particolare con le città di Venezia, Napoli e Firenze. A questo proposito Piccarda Quilici osserva come «nel gran crogiolo della civiltà italiana che non è mai stata chiusa, siano affluite da sempre e liberamente le culture più diverse; il merito è nell’aver assorbito e trasformato genialmente e con fantasia le istanze esotiche e di averne fatto qualcosa di nuovo, di raffinato» (Quilici, Legature di corte italiane, p. 242). Nel campo della legatura, l’Italia assorbì, nel XV secolo, tecniche e motivi utilizzati da secoli presso i popoli islamici, quali ad esempio l’uso del marocchino, dei piatti di cartone (anziché di legno), dei ferri con una nuova gamma di motivi mediorientali ed infine la doratura. Ciò accadde perché le pratiche appena elencate davano la possibilità di ottenere risultati di grande valore artistico. Erano quindi ben gradite alla committenza delle corti italiane del primo Rinascimento, assecondando il loro desiderio di distinguersi e di prendere le distanze dalla produzione precedente (tardogotica).

Le legature dell’Urb. lat. 419 e dell’Urb. lat. 427 presentano, oltre ai ferri di origine moresca, uno stesso ferro a forma di falce a tre punte, accostato in modo tale da formare, nel primo caso, una sequenza di losanghe e, nel secondo caso, una sequenza di archetti trilobati. Il ferro ricorda, nella foggia, quelli in uso nelle legature coeve di area tedesca (cfr. Macchi, Biblioteca Teresiana di Mantova, pp. 127, 128). Inoltre, nell’Urb. lat. 419 è posto a intarsio un riquadro di pelle che presenta una doppia cornice, a filetti impressi a secco, che racchiude un tappeto di croci di Tolosa cordonate e dorate e, al centro, un tappeto di losanghe dal margine concavo, dorate, con inscritto un fiorellino. Entrambi i ferri sono presenti in alcune legature coeve prodotte in Italia settentrionale (cfr. Macchi, Biblioteca Teresiana di Mantova, pp. 127, 176).

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Urb. lat. 419
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Urb. lat. 427

Da quanto detto, è dunque possibile rilevare come alcuni volumi appartenuti a Federico da Montefeltro presentino nelle legature elementi di influenza nord-italiana; i contatti tra la corte feltresca e quella dei Gonzaga e degli Sforza è del resto documentata e per i signori di Mantova aveva a lungo lavorato il copista dell’Urb. lat. 427, Matteo Contugi, il quale a partire dagli anni ’70 del Quattrocento iniziò a lavorare per Federico, diventando uno dei suoi copisti più importanti.

Non è invece possibile stabilire con certezza se le legature siano state realizzate a Urbino oppure in ambiente padano, se ci sia stato quindi un movimento di codici o al contrario di maestranze nella fase finale di confezione.

Molti elementi fanno comunque pensare che accanto allo scriptorium urbinate fosse attiva una legatoria, di cui sembra offrire testimonianza anche il noto Indice vecchio, che al f. 126r-v riporta un breve inventario di materiali attinenti all’arte del legatore, quali «quinterni di charta rasa», «cavretti rasi», «capretti non rasi», «cavretti rinquadrati», «azulli de octone da Antiphonarii», «azulli de octone da altri libri zoè quelli de sotto tra piccoli mezani et grandi», «cantoni de libri de octone duzinali per libri» (cfr. De Marinis, La legatura artistica, p. 82).

L’interesse che Federico espresse nella costruzione della sua collezione libraria è testimoniato anche dalla sollecitudine dimostrata dai legatori nell'acquisizione di nuove tecniche. Bisogna infatti, ad esempio, considerare che le legature dell'Urb. lat. 419 e dell'Urb. lat. 427 rappresentano una delle prime testimonianze in Italia dell’uso dell’oro per decorare le coperte e i tagli, i cui primi esempi, alla metà del XV secolo arrivarono probabilmente da Venezia, dove una tradizione ininterrotta di legatoria portata avanti da artigiani saraceni o persiani, durò almeno un secolo, dal 1465 al 1560.

In Italia, in particolare tramite Venezia e Napoli (per diretto contatto con l’Oriente), vengono pian piano acquisite diverse tecniche di applicazione dell’oro, adoperate nel mondo islamico sin dal XIII secolo. Si tratta nel dettaglio dell’oro liquido ripassato a pennello sulla pelle precedentemente impressa a freddo, oppure della polvere d’oro applicata a spazzola, oppure ancora della foglia d’oro applicata a caldo (cfr. Hobson, Humanists and Bookbinders, p. 21; Quilici, Legature di corte italiane, pp. 241-245). Di quest’ultima tecnica si fece scarso uso fino al 1480.

È difficile capire quale sia la tecnica usata per l’applicazione dell’oro nel caso dell’Urb. lat. 419; sembra possa trattarsi della polvere d’oro applicata con un collante, di cui è stato poi rimosso l’eccesso con una spazzola. Al microscopio infatti è possibile vedere una sorta di schiuma che dovrebbe corrispondere al collante; inoltre i margini dell’oro sono molto poco nitidi. Viceversa nel caso dell’Urb. lat. 427 sembra possa trattarsi proprio dell’oro impresso a caldo, data la nitidezza dei margini. Tuttavia l’oro si presenta molto degradato, forse a causa delle impurità presenti nella foglia o per le traversie subìte in passato dal codice.

Nella decorazione della coperta dell'Urb. lat. 427 è presente anche un altro elemento di novità: una cornice di foglie, definite “palmette” dal de Marinis (cfr. De Marinis, La legatura artistica, p. 88). Vediamo quindi comparire un primo elemento di recupero della tradizione classica, di gusto antiquario, che prenderà sempre più spazio nella produzione artistica italiana, rappresentando un elemento centrale del gusto rinascimentale.

La legatura dell'Urb. lat. 326 rappresenta infine un trionfo di ricchezza: si alternano in essa cornici in oro con cornici argentate (che oggi appaiono nere a causa dell'ossidazione, ma che è stato possibile individuare grazie all'aiuto della tecnica XRF [X-Ray Fluorescence] eseguite dal Bundesanstalt für Materialforschung und -prüfung di Berlino) e zone colorate in verde e blu, ottenute a partire da colori di origine minerale. È presente inoltre una fortissima commistione di elementi provenienti da diverse tradizioni: la quarta cornice è costituita dai ferri a croce di Tolosa cordonata, tipici in alcune legature coeve prodotte in Italia settentrionale; l’ultima cornice è a torciglione impressa a secco, con cerchielli colorati, fregio questo segnalato in manufatti tardo quattrocenteschi lombardi (cfr. Macchi, Biblioteca Teresiana di Mantova, pp. 127, 150); la seconda e la sesta cornice sono costituite da fregi fitomorfi di forte richiamo all’antico, così come lo sono i ferri a palmetta che partono da un’anfora e l'idea del clipeo centrale.

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Urb. lat. 326, piatto anteriore

Si può dunque condividere quanto scrive a proposito della produzione artistica urbinate Luigi Michelini Tocci, il quale afferma che nell'ultimo ventennio del XV secolo a «Urbino si avverte qualcosa di nuovo, quasi un salto di gusto […]. Arrivano a Urbino artisti nuovi, un architetto, Francesco di Giorgio, un pittore, Giusto di Gand. Nel palazzo si nota un più intenso impegno decorativo. Federico è all’apogeo della sua gloria militare e politica; per la prima volta […] può concedersi delle pause di molti mesi da trascorrere a casa […], probabilmente si mette a seguire la politica di casa in modo più diretto. È forse a causa di questa sua presenza che si nota un po’ dovunque un accento più marcato posto alla esigenza celebrativa, la quale a poco a poco viene a prendere il sopravvento. Un gusto del raro e dell’eccellente per usare le parole del Castiglione, ma anche dell’araldico, del sontuoso, surroga in parte il rigore e l’essenzialità delle fasi precedenti. All’austerità che aveva caratterizzato fino allora le manifestazioni al vertice dello stato, subentra un meno controllato orgoglio del potere e del successo personale» (Michelini Tocci, Federico di Montefeltro e Ottaviano Ubaldini della Carda, pp. 333-334).

La peculiarità della legatura in esame fa pensare ad un prodotto originale di manifattura locale. Ne dice il De Marinis: «una legatura caratteristica che rompe nettamente con la tradizione corrente in Italia tra gli anni 1475-1480. La credemmo, per varie ragioni, dapprima napoletana, poi veronese; dovemmo infine riconoscerla fatta in Urbino» (De Marinis, Di alcune legature, p. 317).

L'artista/artigiano che seppe farsi interprete di questa nuova fase artistica nella legatoria non è purtroppo noto. È stato definito dal De Marinis un «delicato artista» (De Marinis, Di alcune legature, p. 319), maturo nella sua espressione d’arte e perfettamente padrone delle necessarie competenze artigianali. Egli seppe coniugare una forte ecletticità, dovuta al confluire alla corte di molteplici apporti culturali, ed il gusto per l’antiquaria; il tutto elegantemente armonizzato e profuso con una ricchezza e abbondanza tali da risultare in perfetta consonanza con le intenzioni del suo committente, il duca Federico.

Purtroppo in questo caso, così come spesso accade, è molto difficile avere notizia dell’identità degli artigiani legatori, sebbene essi si distinguessero per la loro inventiva, la grande abilità e una perfetta padronanza della tecnica nell’esecuzione di fregi complessi, ottenuti intrecciando tra loro fregi anche minutissimi. «Si tratta di oscuri e quasi sempre anonimi artigiani, che dipendono strettamente dai cuoiai, dai cartolai e dai librari e che spesso per sopravvivere non si limitano a cucire e ricoprire libri», ma lavorano sui più disparati oggetti d’uso (cfr. Quilici, Legature di corte italiane, p. 251).

De Marinis attribuisce allo stesso artefice anche altre due legature gemelle, comparando i ferri utilizzati e la struttura compositiva della decorazione: si tratta del Petrarca copiato da Matteo Contugi, oggi conservato presso la Biblioteca Nacional de España di Madrid con la segnatura Vitr. 22-1, e dell’Historia Augusta miniata da Bartolomeo Sanvito, che si trova invece alla Biblioteca Nazionale di Roma con la segnatura Vitt. Em. 1004. L'attribuzione delle loro legature ad un unico artigiano, che ha lavorato per la corte urbinate, sembra ragionevole; il Petrarca è infatti stato associato al nr. 552 dell’Indice vecchio, grazie agli emblemi araldici presenti nella pagina di incipit e ad alcune note manoscritte (cfr. De Marinis, Di alcune legature, p. 319).

Per quanto riguarda il Vitt. Em. 1004, il fatto che si ritenga sia appartenuto a Francesco Gonzaga, non deve stupirci. Sappiamo infatti dei continui contatti avvenuti tra i Gonzaga e i Montefeltro; abbiamo il caso di un volume appartenuto a Francesco Gonzaga presente oggi nel fondo urbinate (l’Urb. lat. 681), così come abbiamo la testimonianza che «lo scriba urbinate Pietro Paolo di Coronata, nel 1461 sottoscrisse a Mantova l’Urb. lat. 643» (cfr. Moranti, Organizzazione della Biblioteca di Federico da Montefeltro, p. 34). Sappiamo inoltre che il copista Bartolomeo Sanvito in ben due casi (Biblioteca Nazionale di Napoli, IV G 65, Cicero De Officiis; Bibliothèque Inguimbertine Municipale di Carpentras, ms. 618, Plutarco, Vita Camilli) ha copiato a Roma per Francesco Gonzaga codici fatti poi rilegare a Padova (Hobson, Sanvito’s Bindings, p. 89). Da questo si deduce che il luogo di copia non debba essere necessariamente associato al luogo di manifattura della coperta.

Allo stesso artigiano-artista il De Marinis attribuisce altre quattro legature: il ms. lat. 99 della Bibliothèque de Genève, il ms. 4.A.II.15 della Biblioteca Gambalunga di Rimini, l’attuale De Marinis 7 della Biblioteca Apostolica Vaticana e il ms. 356 del Walters Art Museum di Baltimora (cfr. De Marinis, Di alcune legature, p. 321; The History of Bookbinding, p. 90 nr. 201). Ma la storia di questi volumi è ancora da approfondire.