La maiuscola biblica
La maiuscola biblica si chiama così perché è la scrittura in cui sono stati copiati i grandi manoscritti biblici del IV e del V secolo, come il cosiddetto Codice Vaticano (o "Codice B", di cui infra), il Codice Sinaitico (oggi smembrato e conservato in varie biblioteche ma consultabile online) e il Codice Alessandrino (British Library, Royal 1.D.VIII). In realtà, però, tale scrittura fu impiegata per scrivere ogni genere di testo letterario sacro e profano, non solo per testi biblici. Appare per la prima volta nel II secolo d.C. e rimaneva in uso per vari secoli, anche dopo la diffusione della minuscola.
Secondo la descrizione di Cavallo (nel libro menzionato alla pagina precedente), questa scrittura, che non presenta particolari difficoltà di lettura, è caratterizzata da:
- asse verticale;
- lettere di modulo regolare (e cioè di dimensioni regolari), sia orizzontalmente che verticalmente;
- lettere che si inseriscono tendenzialmente in un quadrato (in modo che lettere come epsilon, theta, omikron, sigma hanno forma circolare);
- tratti tracciati individualmente all'interno di ogni lettera (in particolare nei tratti obliqui che si incontrano ad angolo retto, come quelli di beta, kappa e my, nonché nell'alpha triangolare composta da tre tratti distinti e facilmente confondibile sia con delta che con lambda);
- tratti di alcune specifiche lettere che regolarmente sporgono dallo schema bilineare (e cioè il tratto discendente di hypsilon e di rho, e quelli ascendenti e discendenti di phi e di psi);
- l'assenza generale di apici alle estremità dei tratti;
- un raffinato effetto di chiaroscuro con tre livelli di spessore nei tratti che compongono le lettere (non solo "pieni" e "filetti" ma anche uno spessore medio), essendo i tratti verticali generalmente pieni, quelli orizzontali filetti, e quelli obliqui di spessore intermedio.
Le ultime due caratteristiche sono quelle che Cavallo identificava come particolarmente distintive della maiuscola biblica; per quanto riguarda l'ultima caratteristica, egli sosteneva (pp. 4-5) che il particolare effetto di chiaroscuro era dovuto all'uso di un calamo con la punta larga che lo scriba teneva in mano con un angolo di circa 15°. Nella figura qui sotto si vede il tracciato che risulterebbe dal modo di scrivere descritto da Cavallo, con la punta a un angolo di 15° (con l'indicazione in blu della posizione della punta in vari punti di passaggio):
Chi ha seguito un corso di paleografia greca nei decenni recenti ha molto probabilmente conosciuto la maiuscola biblica attraverso una riproduzione in bianco e nero della p. 144 del Vat. gr. 1209, (esibita a colori nella schermata iniziale qui sotto), perché questa è stata la pagina scelta come prima tavola nell'album paleografico molto diffuso che fu pubblicato da Enrica Follieri nel 1969.
Vat. gr. 1209 (schermata iniziale: p. 144, Numeri 4:11-31)
Ingrandendo questa pagina e paragonandone la scrittura con le lettere campione qui sopra, si vede che queste ultime ne offrono una approssimazione ragionevole ma che persistono alcune discrepanze, soprattutto per quanto riguarda le ultime due caratteristiche dell'elenco. Gli apici alle estremità delle lettere nel manoscritto sono piccoli e pochi ma non si può dire che mancano proprio. Per quanto riguarda l'angolo di scrittura, esaminando lettere come epsilon, omega o sigma ci si accorge che le parti più strette del "cerchio" corrispondono realmente alle posizioni compatibili con un angolo di scrittura di circa 15° (e cioè ore 11 in alto e ore 5 in basso) e che anche lettere come alpha, beta e my mostrano una distribuzione fra pieni, filetti e tratti di spessore medio che corrisponde a quella delle lettere campione qui sopra e cioè sempre allo stesso angolo di scrittura. Tuttavia l'effetto è molto debole, al punto che molte lettere risultano composte da tratti di spessore più o meno uniforme; e molte lettere presentano una distribuzione degli spessori non compatibile con l'angolo di 15°: in particolare, i tratti obliqui che salgono da sinistra a destra (ad es. in ypsilon o di kappa) non sono filetti molto stretti, come dovrebbe essere secondo lo schema; e i tre tratti di ny, che dovrebbero essere di spessore pressoché uniforme (come nelle lettere campione qui sopra), sono invece differenziate in quanto il tratto obliquo è generalmente sensibilmente più stretto dei due tratti verticali.
Vi è anche un problema più fondamentale con la nozione che il Vat. gr. 1209 possa servire da esempio del canone descritto da Cavallo. Guardando attentamente la p. 144, ci si accorge che certe lettere appaiono sbiadite, in particolare sette lettere di seguito (ς δερρεις) nella seconda riga della terza colonna. Tale fenomeno si spiega, come si può leggere nello stesso libro di Cavallo (p. 53) e con maggiori dettagli nel recente libro di P. Versace I Marginalia del Codex Vaticanus, pp. 43-50; 67-68, per il fatto che la scrittura originaria del manoscritto, che andava sbiadendosi, fu interamente ripassata, lettera per lettera, probabilmente due volte (come dimostrato dal Versace), e cioè una volta nel X o XI secolo, con inchiostro poco più scuro di quello originario, e un'altra volta, probabilmente nel XVI secolo, con l'inchiostro nero che oggi maggiormente si vede nel manoscritto. I ripassi furono effettuati molto accuratamente; tuttavia le tracce (di colore marrone) delle lettere primitive si vedono spesso ai lati dei tratti delle lettere nere. Occasionalmente, peraltro, gli scribi del ripasso saltavano singole lettere o anche intere parole o frasi, sia per errore, sia perché ritenevano erronee le lettere o le parole saltate. Queste lettere saltate, che oggi rimangono sbiadite, costituiscono le uniche parti ancora pienamente visibili della vera scrittura originaria del codice.
Tutti e tre i "livelli" di scrittura si vedono chiaramente nella parola ειπεν alla p. 58 (qui riprodotta), dove il primo ripassatore scrisse le lettere ειπε (omettendo la ny finale, come faceva regolarmente quando al "ny efelcistico" scritto dallo scriba originario seguiva una consonante), mentre il secondo ripassatore riscrisse soltanto le lettere πε, omettendo non solo la ny finale ma anche (per errore, a quanto pare) le lettere iniziali ει.
Ne risulta che la ny è l'unica lettera di questa parola che rappresenta davvero la "perfezione" della maiuscola biblica del quarto secolo. Anche nella p. 144 del manoscritto vi sono lettere che non furono ritoccate da nessuno dei ripassatori medievali, fra le quali alcuni casi di ny efelcistico; due my (prima colonna, rr. 3 e 28) la cui omissione trasforma la forma verbale ellenistica λήμψονται nella forma attica λήψονται; e qualche altra singola lettera la cui individuazione e interpretazione potrà costituire un utile esercizio. Nella seconda riga della terza colonna (Nb 4:25), il primo ripassatore, che stava chiaramente paragonando questo manoscritto a un altro esemplare con un testo un po' diverso, avendo deciso che la lezione τὰ σκεύη ("gli strumenti") era preferibile alla lezione τας δερρεις ("le tende") che era stata scritta dallo scriba originario del Vat. gr. 1209, aggiunse un segno di rimando (simile a una s latina) sopra l'alpha di τας; disegnò lo stesso segno anche nel margine; aggiunse la parola σκεύη sotto il segno marginale; e indicò che le lettere ς δερρεις erano da non leggere omettendo di ripassarle. Il secondo ripassatore fece altrettanto, ripassando anche la lezione marginale (ma non I segni di rimando). Il risultato finale, per noi, consiste nella presenza di altre otto lettere chiaramente visibili della mano originaria del manoscritto.
Vi sono casi simili anche in altre pagine del codice (il passo più lungo di testo non ripassato consiste in quattro righe a p. 1479 = 2Cor 3,15-16), ma finora è stato sempre molto difficile studiare la scrittura originaria del manoscritto, perché ciò che ne rimane consiste in centinaia di piccoli campioni dispersi attraverso tutto il codice, composti perlopiù di singole lettere, che non permettono mai di cogliere una impressione generale di come si presentava una pagina vergata con questa scrittura. Ma oggi è cosa relativamente semplice costruire un collage dei resti della scrittura originaria, come quello che si vede qui sotto. (Il collage include soltanto i passi in cui le lettere conservate sono più di una o due di seguito, ed è stato "ripulito" eliminando tracce estranee alla scrittura e in particolare le tracce della scrittura del lato opposto che spesso traspaiono attraverso la pergamena. Può essere che qualcuna delle lettere che si vedono qui fu ripassata anche dal primo ripassatore: è impossibile dirlo con certezza, tranne nei pochissimi casi in cui tutti e tre i "livelli" si distinguono chiaramente in una stessa parola, come nel caso già citato di ειπεν. La cosa sembra pero relativamente improbabile, come si può verificare paragonando la ε di ειπεν nell'immagine qui sopra con una qualunque delle ε nell collage. Appare, infatti, che il secondo ripassatore (a differenza del primo) non stava collazionando due esemplari, cercando ulteriori passi da correggere o da omettere, ma piuttosto ripetendo il lavoro del suo predecessore, senza rimettere in questione le sue scelte.)
Per guadagnare familiarità con questa scrittura si raccomanda la trascrizione del collage (per il controllo della trascrizione si veda qui). Se vedano anche le altre trascrizioni e le annotazioni sul Vat. gr. 1209, tenendo conto del fatto che ciò che si vede non è scrittura del quarto secolo ma (perlopiù) un ripasso di tale scrittura realizzato nel sedicesimo secolo.
Un altro esercizio utile può consistere nel verificare l'ipotesi secondo la quale sono da distinguersi due mani diverse in questo manoscritto. Secondo Milne & Skeat, Scribes and Correctors of the Codex Sinaiticus, pp. 87-90, le pp. 41-334 (Gn 46:28-1Rg 19:11) si possono attribuire a un primo scriba ("A"); le pp. 335-624 (1Rg 19:11-2Esd) a un secondo scriba ("B"); le pp. 625-944 (Sal-Tob) di nuovo allo scriba A; e le pp. 945-1518 (Os-Dn e tutto il Nuovo Testamento) di nuovo allo scriba B. Tuttavia, tale ipotesi non si basa sullo studio delle scritture dei due scribi (gli due studiosi, infatti, non avevano accesso al nostro collage) ma piuttosto sull'osservazione di altre loro abitudini, ad es. il modo in cui decoravano le loro sottoscrizioni, il modo in cui impiegavano il segno ">" per riempire una riga che non giungeva al margine destro, ecc. I confini fra le sezioni attribuite ai due scribi sono indicati nel collage con linee color turchese: si possono identificare differenze fra la scrittura dello scriba A e quella dello scriba B? Il paragone si potrà fare più facilmente sull'immagine che si trova qui, dove i campioni sono smistati per scribi e dove sono consegnate anche alcune osservazioni in merito.
Essendo questo il primo esercizio di trascrizione qui proposto, sarà utile notare alcuni aspetti da tenere in considerazione quando si trascrivono i manoscritti greci, prima di tornare alla specifica questione della maiuscola biblica. Una caratteristica dei manoscritti greci che salta all'occhio è sicuramente l'assenza di divisione fra le parole. È da notare che il concetto di "parola" è comunque poco chiaro e che i Greci avevano in qualche modo ragione, se si vuole, di non incorporarlo nel loro modo di scrivere. Tuttavia la tradizione grammaticale greca, che risale all'epoca antica, dimostra che i Greci condividevano senz'altro la nostra nozione intuitiva di ciò che costituisce una "parola", per cui ci si può anche meravigliare del fatto che la loro scrittura, con poche eccezioni piuttosto tardive, si presenti normalmente come un flusso ininterrotto di segni (detto scriptio continua). Nonostante ciò, la prassi comune, che si rispetterà anche nelle trascrizioni proposte qui, è di introdurre la divisione fra parole nelle trascrizioni.
D'altra parte, la divisione di una singola "parola" fra due righe non dava nessun tipo di fastidio agli scribi greci, i quali non sentivano neanche il bisogno di avvertirne il lettore con un segno paragonabile al nostro trattino. Tuttavia, si nota che gli scribi greci cercano di far coincidere le divisioni fra righe con quelle fra sillabe, seguendo le regole abituali della sillabificazione greca, per le quali le consonanti singole, nonché i gruppi di consonanti che possono trovarsi all'inizio di una parola, fanno parte della sillaba successiva; nei gruppi di consonanti che non possono iniziare una parola, la divisione si colloca in modo tale da creare a destra un gruppo (che può anche consistere in una unica consonante) che può iniziare una parola. Così troviamo, nel Vat. gr. 1209, νυ|κτος (p. 62, c. 1, rr. 2-3 dal basso); ε|στιν (ibid., c. 3, rr. 11-12); αι|σχυνθησονται (p. 715, c. 1, rr. 24-25); αν|δρα (p. 1207, c. 2, rr. 22-23); δεν|δρον (p. 1252, c. 2, rr. 9-10 dal basso). Tali regole si rispettano spesso anche nelle parole composte come ε|ξηλθαν (ibid., c. 1, rr. 11-12); προ|σηλθαν (ibid., c. 3, rr. 15-16). Le eccezioni non mancano (e.g. ε|χθρος in p. 1252, c. 2, rr. 2-3); e altri scribi sono meno attenti a questo aspetto rispetto a quello (o quelli) del Vat. gr. 1209. Le regole di sillabificazione possono applicarsi a fine rigo anche a prescindere dalla divisione in parole, come in ου|κ ην (p. 62, c. 1, rr. 5-6); ε|π᾽ αυτο (p. 144, c. 1, rr. 9-10); με|θ᾽ ημων (p. 1207, c. 1, rr. 27-28). Gli ultimi tre esempi fanno intuire che lo scriba pensava in sillabe piuttosto che in "parole"; e un tale modo di pensiero potrebbe anche spiegare perché la scriptio continua è rimasta così a lungo la prassi normale degli scribi greci.
Si noterà anche, nel collage qui sopra, l'assenza pressoché totale di accenti e di spiriti. Si dice spesso che gli accenti e gli spiriti che si vedono oggi nelle pagine del Vat. gr. 1209 furono aggiunti dai ripassatori medievali; ma si vede qui che lo scriba originario sembra averle utilizzati occasionalmente: si veda lo spirito aspro sul pronome relativo ἁς al r. 23 (col. di sinistra; lo spirito ha la forma della metà sinistra di una eta maiuscola); il circonflesso sull'articolo al genitivo τοῦ al r. 25 (col. di sinistra); e l'accento grave sull'articolo neutro τὸ al r. 9 (col. di destra). È vero, tuttavia, che l'uso di tali segni diacritici rimaneva "facoltativo" fino all'età avanzata della minuscola. Un'altra caratteristica che può sorprendere è la "dieresi" (due punti sopra una vocale), il cui uso qui dimostra chiaramente che lo scriba non la considerava indicativa di una "separazione" fra due vocali (la dieresi è presente nelle parole seguenti: col. di sinistra, r. 2 ϋιων; r. 15 ϊδου; r. 25 ϊωας; rr. 44-5 ϊουδα; col. di destra r. 5 ϋμων; r. 6 ϋποκατω). Non è del tutto chiaro come lo scriba (o gli scribi) del Vat. gr. 1209 concepisse la funzione di tale segno, e il mistero rimarrà intero fino all'ultimo periodo dei manoscritti in minuscola. Occasionalmente la dieresi si usa come nella tipografia greca moderna (e cioè per indicare che due vocali successivi non costituiscono un dittongo), ma più frequentemente viene posto, a quanto pare a caso, soltanto su iota e su ypsilon, preferibilmente (ma non esclusivamente) quando queste vocali iniziano una parola. Le trascrizioni diplomatiche riproducono spesso le dieresi come appaiono nei manoscritti; ma si possono anche omettere, in quanto risultano prive di significato.
Il collage fornisce anche un piccolissimo campione di un'altra categoria di difficoltà che di seguito diventerà molto più prevalente, e cioè quella delle abbreviazioni. Qui si limitano a pochi esempi, e cioè il tratto orizzontale sopra una vocale (che è spesso l'ultima lettera della riga), che vale ny, qui c. 1 rr. 8-9 πα̅|τα = πα(ν)τα; r. 16 ηλθε̅ = ηλθε(ν), ecc.; l'abbreviazione per και in forma di kappa con una coda apposta al tratto obliquo inferiore, qui c. 1 r. 19 εξεχομενων κ(αι); e i cosiddetti nomina sacra, una serie di parole che per convenzione vengono abbreviate e la cui abbreviazione viene segnalata con un tratto orizzontale simile a quello che vale ny, qui c. 1 r. 6 e c. 2 r. 16 κ̅ς̅ = κ(υριο)ς; c. 1 r. 26 κ̅υ̅ = κ(υριο)υ; c. 2 r. 11 ι̅ν̅ = ι(ησου)ν; c. 2 r. 25 κ̅ν̅ = κ(υριο)ν.
Tornando ora al caso specifico della maiuscola biblica, possiamo notare che, essendo rimasto in uso per un periodo molto lungo, si presta difficilmente a una datazione precisa dei manoscritti che la esemplificano. Tuttavia, la ipotesi di Cavallo era che le sette caratteristiche elencate all'inizio di questa pagine si trovano principalmente nei manoscritti prodotti durante la fase di maturità (o, per impiegare la sua terminologia, di "perfezione") del canone, per la quale fase egli propose una datazione dal secondo quarto del terzo secolo al terzo quarto del quarto secolo (e cioè 225-375 d.C. circa). Le scritture che risultano iscriversi nel canone ma che se ne discostano in modo significativo per una o più delle sue caratteristiche possono considerarsi anteriori o posteriori a tale periodo, a seconda che le discrepanze rispetto al canone vengano interpretate come determinate dallo stato ancora imperfetto del canone oppure, al contrario, dalla sua progressiva decadenza. Tuttavia, siccome non si prendono qui in considerazione i manoscritti su papiro, e siccome quelli su pergamena difficilmente saranno databili prima della maturità del canone, le indicazioni cronologiche di Cavallo significano in pratica che le discrepanze dal canone (nei manoscritti di pergamena) indicano una data più recente (e cioè posteriore a 375 d.C circa). Esempi ne sono il già menzionato Codice Alessandrino, databile al V secolo d.C.; nonché i due manoscritti che si vedono qui sotto, e cioè il Vat. gr. 1288 (Cassio Dione, V sec. d.C.) e il Vat. gr. 1666 (un testimone dei Dialoghi di Papa Gregorio Magno [590-604 d.C.], tradotti in greco da un altro papa, Zaccaria [741-752 d.C.]). Quest'ultimo manoscritto reca una sottoscrizione al f. 185v che permette di datarlo precisamente all'anno 800 d.C.; si tratta peraltro del primo manoscritto greco conosciuto che è esplicitamente datato.
(a sinistra) Vat. gr. 1288 (schermata iniziale: p. 23); (a destra) Vat. gr. 1666 (schermata iniziale: f. 5v)
Si noti come, in questi due manoscritti, tutte le caratteristiche del canone della maiuscola biblica vengano più o meno trascurate. Gli angoli si trasformano in curve (si notino in particolare la fusione dei due tratti obliqui di my e quella dei due tratti brevi di alpha, che si fondono in un ochiello); il tratto discendente di ypsilon si ferma alla linea base (o poco oltre); il chiaroscuro si riduce a una opposizione binaria fra pieni molto spessi e filetti molto sottili, tralasciando lo spessore medio; e molte lettere presentano apici ben sviluppati. Tali tendenze si verificano soprattutto nel secondo manoscritto, la cui scrittura è anche più irregolare (in particolare per quanto riguarda l'altezza delle lettere). Si noti inoltre come il primo manoscritto sia interamente privo di accenti e spiriti, che sono invece presenti e coevi della vergatura nel secondo.