6. LE SCRITTURE ITALO-GRECHE (SECOLI X – XII)
Nelle pagine precedenti, abbiamo classificato una serie di minuscole greche in termini di stile o di cronologia, ma non in termini geografici; e questo può sorprendere, specialmente quando si sa che i paleografi latini non esitano ad attribuire le scritture con grande sicurezza a specifici paesi, ad aree geografiche o persino a singoli scriptoria. Tali attribuzioni sono raramente possibili con le scritture bizantine. Questo fatto potrebbe riflettere in parte la realtà politica che l'impero bizantino era uno stato unitario molto centralizzato, almeno dopo le conquiste arabe, che sottrassero dal suo territorio città come Alessandria, Antiochia o Cesarea, che avrebbero potuto continuare a competere con la capitale per il primato culturale, se non per quello politico. Una cultura scrittoria unitaria sarebbe un riflesso naturale di tale circostanza (così la Perria nel suo manuale, p. 97). Un'altra spiegazione fu suggerita da H. Hunger nell'introduzione al suo contributo del 1954 sulla Perlschrift (p. 23), ed è il fatto che un cospicuo numero di biblioteche monastiche medievali occidentali sopravvivono fino ai giorni nostri, o nelle loro sedi originarie, o in biblioteche pubbliche; mentre le biblioteche bizantine hanno quasi tutte subìto la dispersione, con alcune eccezioni (Monte Athos, Meteora, Patmos) le cui collezioni, tuttavia, non consistono principalmente in libri prodotti in loco ma piuttosto in volumi portati da varie altre aree da parte di proprietari che cercavano rifugio per se stessi e per le loro biblioteche. Ciò suggerirebbe che la differenziazione scrittoria geografica potrebbe effettivamente essere esistito, ma che la chiave per interpretarla non è (ancora) stata scoperta; in tal senso, le osservazioni dello Hunger costituivano un opportuno esordio alla presentazione della sua identificazione di uno specifico "stile" o "canone" di scrittura. Costituisce quindi una forte delusione il fatto che, in termini geografici, né lo Hunger né nessun altro studioso sia stato in grado di dire niente di molto specifico sulla Perlschrift, oltre a notare che circa 4 su 10 degli esemplari in Perlschrift che sono di nota origine geografica provengono da Costantinopoli. Lo stesso Hunger suggerì come "ipotesi di lavoro" che la Perlschrift potesse essere considerata una scrittura costantinopolitana; ma in realtà una percentuale del 40% sarebbe anche perfettamente compatibile con l'ipotesi che questa scrittura fosse diffusa ugualmente in tutto l'impero bizantino. Il che ci riporta quindi alla visione di Perria secondo cui la differenziazione geografica delle scritture minuscole bizantine non è davvero possibile.
Tuttavia, un caso che sembra suggerire che l'intuizione di Hunger non fosse del tutto priva di fondamento è quello dei manoscritti greci prodotti in Italia meridionale, alcuni dei quali sono effettivamente rimasti in biblioteche stabili dal tempo della loro produzione fino ai giorni nostri (il libro di R. Devreesse offre ancora una buona introduzione a questi manoscritti, sebbene ora alquanto obsoleto). La presenza di comunità di lingua greca nell'Italia meridionale, di cui alcune vestigia rimangono ancora oggi in Calabria e nel Salento, può o meno risalire alla Magna Grecia dell'ottavo e del settimo secolo a.C.; ma non c'è dubbio che risale, senza iato, al periodo medievale in cui parti sempre fluttuanti dell'Italia meridionale e della Sicilia erano sotto il diretto controllo politico, militare e religioso di Costantinopoli, essendo le altre parti variamente occupate dagli Ostrogoti, dai Longobardi, dagli Arabi e infine dai Normanni. Inoltre, i Normanni, sotto Ruggero I e i suoi successori, dalla fine dell'XI alla fine del XII secolo, non solo tollerarono, ma sostenevano attivamente il fiorire della cultura greca nel loro territorio e la fondazione di numerosi monasteri greci. Dal IX al XII secolo, l'attività degli scribi greci nell'Italia meridionale può essere rintracciata principalmente nella parte tirrenica della penisola (principalmente Calabria e Sicilia nord-orientale, ma anche Campania e Lazio, oltre alla Lucania); durante il periodo normanno, che coincide principalmente con il XII secolo, e successivamente, vi fu anche una notevole produzione sul versante adriatico, nella regione di Otranto nel Salento, che studieremo più avanti.
Il primo manoscritto datato in minuscola che fu certamente prodotto in Italia meridionale è ora conservato nel Monastero di San Giovanni il Teologo a Patmos (Patm. 33), e fu copiato a Reggio di Calabria nel 941 d.C. dai due scribi Nicola e Daniele, uno dei quali (Lake 1,15, tavola 33) scriveva una "antica minuscola angolosa", mentre l'altro (ibid., tavole 31 e 32) impiegava una scrittura che viene generalmente considerata un "tipo Anastasio". Questo fatto è stato talvolta interpretato come dimostrazione di una origine italogreca del "tipo Anastasio"; più probabilmente dimostra che i manoscritti greci dell'Italia meridionale non sempre esibivano un carattere regionale distintivo, ma partecipavano alle mode attestate anche altrove. Il codice è comunque molto insolito tra i manoscritti italo-greci in quanto si tratta di un volume molto ampio e lussuosamente decorato (si veda recentemente I. Hutter, "Patmos 33 im Kontext", RSBN 46 [2009], pp. 73-126; la Hutter sostiene fra l'altro l'intrigante ipotesi che la scrittura che si vede in Patm.33 non sia affatto un "tipo anastasio", ma piuttosto il risultato del tentativo, da parte dello scriba, di modificare la sua scrittura abituale, che secondo questa ipotesi era la minuscola angolosa che vediamo nel Par. gr. 515, alle dimensioni insolitamente grandi e all'ampio spazio interlineare del Patm. 33). Il fatto stesso che questo manoscritto sia finito a Patmos, appena al largo della costa dell'Asia Minore, dimostra che l'Italia meridionale non era culturalmente isolato: i libri viaggiavano e non c'è dubbio che anche gli scribi lo facessero; invero c'è motivo di credere che molti degli abitanti di lingua greca dell'Italia meridionale in quei tempi difficili fossero rifugiati dalle regioni orientali dell'Impero bizantino che erano stati recentemente conquistati dagli arabi. Ovviamente tali rifugiati avrebbero probabilmente portato con sé libri e tradizioni scribali. Comunque sia, altri manoscritti greci del X secolo copiati in Italia meridionale presentano anche scritture angolose meno insolite di quella del "tipo Anastasio", ad es. il Vat. gr. 1591 (964 d.C.) e il Reg. gr. 75 (circa 982 d.C.; Lake 9,335).
Tuttavia, ci sono alcune altre scritture bizantine che risultano distintamente italo-greche.
A. La minuscola "ad asso di picche"
La più caratteristica di tutte è la cosiddetta "Minuscola ad asso di picche", un nome che fu coniato da Devreesse (nel suo già citato libro, p. 34) e che si riferisce alla forma di una legatura epsilon-rho particolarmente frequente in questa scrittura (ma che è ben attestata anche in altre minuscole e la cui presenza da sola non può assolutamente costituire un segno di provenienza italo-greca). Le caratteristiche più salienti di questo scrittura, che sono tutte illustrate nell'esempio qui sotto, sono:
- Una miscela di forme corsive e formali e di forme curve e angolose (si confronti, ad esempio, nell'esempio qui sotto, la parola βίβλους, che non sembrerebbe fuori luogo in una Perlschrift formale, con i casi ripetuti di legatura molto corsiva tau-epslion; o con la legatura alpha-csi alla fine della seconda riga, che prefigura l'alpha moderna a forma di pesce; o con il συν corsivo in συνεψήφισαν nella quarta riga;
- Tratteggio raddoppiato ("su e giù") dei tratti ascendenti verticali, come nelle varie kappa del campione qui sotto, e anche nella psi di συνεψήφισαν;
- La ny inclinata a destra che è una via di mezzo fra maiuscola e minuscola (due esempi nella locuzione Ἱκανοί τε τῶν);
- La rho aperta a sinistra (ad es. in πραξ-, r. 2 fine), di cui la legatura "ad asso di picche" è un esempio.
Nessuno dei manoscritti in minuscola "ad asso di picche" reca una sottoscrizione che menzioni esplicitamente la sua data o il suo luogo di esecuzione; tuttavia, non vi è dubbio che si tratta in realtà di una scrittura italo-greca, che si può peraltro datare in modo abbastanza sicuro in un periodo che va dalla metà del IX alla metà del X secolo. Questo è possibile grazie a una serie di manoscritti in cui questa minuscola appare insieme ad altre scritture che possono essere datate e localizzate con sicurezza (e cioè quelle che vedremo di seguito; si veda l'articolo di P. Canart in Atti del 4 Congresso Storico Calabrese, pp. 55- 69: 60-61 [rist. In id., Études…, pp. 215-229: 220-221]); in qualche caso entrambe le scritture risultano attribuibili a uno stesso scriba.
Per ulteriori approfondimenti sulla minuscola "ad asso di picche" e per gli esercizi di trascrizione, si veda il Vat. gr. 1553.
B. Minuscula della Scuola di S. Nilo il Giovane
L'intuizione controfattuale dello Hunger secondo la quale le minuscole greche sarebbero più facilmente classificabili se le biblioteche monastiche bizantine fossero rimaste intatte trova un sostegno nel caso della scrittura associata a S. Nilo il Giovane e alla sua "scuola", la quale, benché ben documentata e facilmente identificabile grazie al gran numero di esemplari rimasti nella biblioteca dell'abbazia fondata dal santo a Grottaferrata vicino a Roma, forse non è peculiare a tal punto che sarebbe stato individuato dai paleografi moderni come uno stile a sé stante se questi esemplari fossero stati dispersi per il mondo. Originario di Rossano (oggi una piccola città nella provincia di Cosenza, nel nord della Calabria, ma nel IX secolo un importante centro amministrativo bizantino), San Nilo lasciò la sua città natale prima del 980 d.C. con un gruppo di seguaci, soggiornando in varie parti della Calabria e della Campania prima di fondare l'abbazia di Grottaferrata nel 1004 e di morire poco dopo. Questi dettagli e molti altri sono raccolti in una biografia (si veda il n. 1370 nella B[ibliotheca] H[agiographica] G[raeca] di F. Halkin) che è conservata in un manoscritto vergato a Grottaferrata da uno dei suoi discepoli e ancora presente nella biblioteca dell'abbazia (Crypt[oferratensis] B. β. 2; si veda l'edizione di G. Giovanelli). Questo βίος ci informa anche che Nilo copiò moltissimi manoscritti, nonostante non possedesse un calamaio (ne modellò invece uno con la cera sulla sua scrivania: Giovanelli § 18, p. 65); che usava una "calligrafia delicata e compatta" (λεπτῷ καὶ πυκνῷ χρώμενος ἰδιοχείρῳ: § 15, p. 63); e che insegnò l'arte della calligrafia ai suoi discepoli (Giovanelli § 20, p. 67).
Campioni della scrittura dello stesso S. Nilo si possono vedere nei manoscritti Crypt. B. α. 19, B. α. 20 e B. β. 1, il primo dei quali si vede nel visualizzatore di seguito.
Crypt. B.β.19, vergato da S. Nilo il Giovane; schermata iniziale: ff. 15v-16r.
Si può anche guadagnare una impressione generale di questo tipo di scrittura dall'immagine di dettaglio qui sotto, proveniente Ott. gr. 251, che viene attribuito a un membro della "scuola" di Nilo di nome Arsenio (RGK 3,49; si veda l'articolo di E. Follieri "Due codici greci già cassanesi ..." nel Festschrift per Giulio Battelli, pp. 159-221, rist. In ead., Byzantina et Italograeca, pp. 273-336).
La sintesi più autorevole su questa scrittura è ancora l'articolo fondamentale pubblicato da Santo Lucà negli atti di un convegno tenutosi nel 1988 (pp. 319-387), che la descrisse in dettaglio e ne distinse vari sottotipi, molti dei quali associati con specifici scribi che possono essere considerati membri della "scuola" di Nilo, che costituì, nella memorabile frase di Lucà, uno "scriptorium itinerante" fino a quando non arrivò alla sua localizzazione definitiva a Grottaferrata, dove sono ancora conservati molti dei relativi manoscritti (tuttavia, la maggior parte di questi codici furono vergati in Calabria o in Campania nella seconda metà del IX secolo, durante la fase "itinerante" della scuola, prima della fondazione dell'abbazia di Grottaferrata). Lucà assicura (p. 137) che le scritture di questa scuola sono "facilmente riconoscibili", facendo eco al punto di vista di Follieri (nel suo contributo al convegno di Parigi, p. 149, ripreso in Byz. et Italogr., p. 220), secondo il quale si tratta di una delle "tipizzazioni grafiche veramente caratteristiche" dell'Italia bizantina (così anche la Perria nel suo manuale, p. 105); ma in realtà nessuno di questi studiosi è stato in grado di fornire una descrizione di questa scrittura che consentirebbe di riconoscerlo con sicurezza. La Follieri (p. 150) la descriveva come "una minuscola di piccolo modulo, rotonda, verticale o appena inclinata a destra, con percentuali non alte di lettere di forma maiuscola (specialmente lambda, kappa, pi), sovente ricca di abbreviazioni, alcune delle quali caratteristiche". La descrizione di Perria (p. 107) è altrettanto generica: "piuttosto corsiveggiante, è una scrittura dall'aspetto fluido, di modulo piccolo, con lettere di forma intermedia fra rotonda e quadrata, spesso ricca di abbreviazioni (…)". La lunga descrizione di Lucà, d'altra parte (pp. 323-5), è così ampia che potrebbe applicarsi in un modo o in un altro a quasi tutte le minuscole.
In una certa misura, come notato dallo stesso Lucà (p. 326), questa situazione paradossale si spiega per il fatto che gli scribi della scuola di S. Nilo sembrano aver cercato soprattutto di produrre un armonioso effetto complessivo sulla pagina, evitando qualsiasi eccesso in esecuzione che potesse recare disturbo alll'occhio. Il risultato è una scrittura povera di elementi salienti che potrebbro servire a descriverla o a distinguerla (in questo senso specifico è simile alla Perlschrift). Eppure, questa scrittura è davvero riconoscibile, per chi ha l'occhio allenato. Tale "riconoscibilità" dipende forse principalmente dall'aspetto generalmente "appiattito" della scrittura, il quale, tuttavia, non è prodotto tanto dalla morfologia delle singole lettere (si vede, infatti, nell'esempio qui sopra, che molte lettere, in particolare epsilon, omicron, sigma e hypsilon, hanno "rapporto di aspetto" alto piuttosto che largo), ma piuttosto dalla spaziatura delle lettere e, soprattutto, dallo spessore dei tratti, realizzati a quanto pare con una penna a punta rotonda e di discrete dimensioni (tale "appiattimento" è una caratteristica anche di altre scritture italo-greche). Il modulo è molto regolare: si ha l'impressione che lo scriba stia facendo uno sforzo sostenuto per creare nuclei di lettere di dimensioni uniformi. Detto modulo è infatti "piccolo", come si nota sempre; tuttavia, lo spazio interlineare è anche generalmente molto ridotto, con tratti ascendenti e discendenti brevi, il che produce complessivamente una impressione generale di scrittura non tanto "piccola" quanto "densa", come è stato effettivamente notato dal biografo di S. Nilo (πυκνῷ […] ἰδιοχείρῳ).
Per le trascrizioni e le annotazioni si è scelto il codice Vat. gr. 2138, che fu vergato a Capua nel 991 CE, e cioè circa un decennio e mezzo prima della fondazione dell'abbazia di Grottaferrata, da parte di uno scriba di nome Κυριακός (RGK 3,358). Il codice rimase a Grottaferrata fino al XVIII secolo, quando fu trasferito alla Vaticana (si veda S. Lilla, I manoscritti Vaticani greci, p. 82). Si tratta di uno degli esempli più belli della scrittura della "scuola" di S. Nilo, ma non è stato scelto come illustrazione per la pagina presente perché risulta atipico di tale scrittura per un preciso aspetto, e cioè il notevole contrasto fra pieni e filetti che indica che lo scriba impiegava una penna a punta larga tenuta con angolazione obliqua.
C. Lo "Stile di Rossano"
Non c'è dubbio che i libri greci continuarono ad essere copiati a Rossano anche dopo che San Nilo lasciò la sua città natale; e nel 1095 d.C., poco più di un secolo dopo la sua partenza, un nuovo monastero fu fondato a Rossano da S. Bartolomeo da Simeri. Era dedicato alla Θεοτόκος Ὁδηγήτρια (la Madre di Dio che indica la via) ma viene comunemente chiamato il Monastero di "Santa Maria del Patìr", essendo il Πατήρ in questione il fondatore, S. Bartolomeo da Simeri. Il monastero disponeva di uno scriptorium e di una notevole biblioteca, che rimase nell'abbazia fino alla fine del XVII secolo, quando, di fronte allo stato di degrado generale dei monasteri greci della Calabria, il Generale dei monasteri basiliani dell'Italia meridionale, Pietro Menniti , la portò, insieme a diverse altre biblioteche monastiche calabresi, al Collegio di S. Basilio a Roma. Queste collezioni "basiliane" furono poi acquistate dalla Biblioteca Vaticana nel 1786; oggi sono i Vaticani greci 1963-2123.
In ventidue di questi manoscritti (e cioè nei Vat. gr. 1989, 1991, 1992, 1998, 1999, 2000, 2003, 2009, 2016, 2021, 2022, 2042, 2048, 2050, 2060, 2064, 2089, 2091, 2115, 2119, 2121, 2123), nonché in altri cinque manoscritti vaticani che non fecero parte dell'acquisto del 1786 (Barb. gr. 482, 501; Vat. gr. 1270, 1495, 1642) e in una cinquantina di altri manoscritti ora conservati in altre biblioteche, S. Lucà (RSBN 22-23 [1985-86], pp. 93-170) ha identificato uno "stile di Rossano" (per un resoconto aggiornato e la bibliografia recente su questo stile, si veda D. Bianconi "Lo stile di Rossano. Cultura grafica tra metropoli e periferia", Scripta 10 [2017], pp. 9-31:9-10). Molti di questi manoscritti sono esplicitamente localizzati nel monastero del Patìr. Gli esemplari datati attribuiti allo stile Rossano vanno dal 1086 d.C. (alcune pagine del Sinait. Gr. 401) al 1125/6 d.C. (Vat. gr. 2048, ff. 141-220), con una maggiore concentrazione nel primo decennio del XII secolo (tuttavia, il Bianconi ritiene che il Sinait. gr. 401 non sia da considerarsi un rappresentante di questo stile).
A dire il vero, lo "stile di Rossano", così come lo descrisse Lucà, è uno stile di manoscritto più che di scrittura. Lo stesso Lucà notava (p. 99) che "lo stile Rossano (...) non presenta caratteristiche grafiche peculiari che valgano a riconoscerlo immediatamente. Lettere isolate, legature e pseudo-legature consimili si rinvengono, infatti, nelle grafie coeve e soprattutto nella Perlschrift (…)". Proseguiva poi elencando le caratteristiche non grafiche tipiche di questo stile (di manoscritto), vale a dire l'inchiostro pallido; l'uso prevalente di certi sistemi di rigatura delle pagine, talvolta rinforzati a matita (che è una cosa davvero insolita); fascicoli di otto fogli ("quaternioni") con lato carne all'esterno e numerazione al primo recto e all'ultimo verso di ogni fascicolo (caratteristiche assai tipiche dei manoscritti bizantini); e una semplice decorazione in rosso carminio realizzata con la tecnica della "riserva" (e cioè a "sagoma inversa") che richiama uno stile noto come Blütenblattstil, assai comune nei manoscritti prodotti altrove nel mondo bizantino dalla metà del X secolo in poi (il termine è stato coniato da K. Weitzmann, Die byzantinische Buchmalerei…, pagg. 22-32) ma che altrove è solitamente policromo (si vedano qui sotto gli esempi del Blütenblattstil "classico" e della decorazione "stile di Rossano").
Per quanto riguarda la scrittura stessa, anche in questo caso la descrizione di Lucà è piuttosto generica (pp. 97-98): "[s]i tratta di una grafia minuta, fluente, sospesa al rigo, con nuclei regolari ed uniformi, con asse diritto o un po' inclinato a destra, contraddistinta da grande equilibrio tra larghezza e altezza, da misurato e contenuto sviluppo delle aste (...)"; notò anche una percentuale assai elevata di forme maiuscole. Naturalmente questa descrizione potrebbe applicarsi a moltissime scritture, inclusi in particolare molti esempi della Perlschrift; e in effetti alcuni studiosi hanno suggerito che lo "stile di Rossano" altro non è che una variante locale (o "allotropo", nell'espressione memorabile di M. B. Foti, Il monastero ..., p. 31) della Perlschrift. Di recente D. Bianconi (nel suo già citato articolo in Scripta 10 [2017], pp. 9-31), ha suggerito che il precursore specifico dello "stile Rossano" potrebbe trovarsi non fra le scritture italo-greche ma piuttosto in un tipo particolare di Perlschrift che si trova in diversi manoscritti che furono copiati nel monastero costantinopolitano del Θεοτόκος Εὐεργέτις, come il Marc. gr. Z. 101, il Bodl. Auct. T.2.2, il Paris. Coisl. 248 o il Paris. gr. 581. Ad ogni modo, oltre alla generica somiglianza con la Perlschrift, Lucà notò anche, nello "stile Rossano", alcune caratteristiche forme di lettere, come la delta maiuscola con il tratto superiore ricurvo; psi con tratto orizzontale ricurvo; zeta a forma di 2 o di 3; rho aperta a sinistra; ny maiuscola inclinata. Tutte queste morfologie si trovano anche in altre scritture (le ultime due sono condivise in particolare anche dalla minuscola "ad asso di picche") e inoltre nessuna di queste viene usata in modo sistematico nello "stile di Rossano", ma solo sporadicamente. Una caratteristica veramente distintiva di questa scrittura è invece l'abitudine di porre l'accento acuto su una vocale iniziale indifferentemente prima o dopo lo spirito che la accompagna (gli scribi bizantini normalmente seguono la stessa nostra abitudine, ponendo lo spirito sempre a sinistra). La maggior parte di queste caratteristiche si vedono nel campione qui sotto, tratto dal Vat. gr. 2050, f. 37r, vergato nel monastero del Patìr di Rossano nel 1105 d.C. da un monaco di nome Bartolomeo (RGK 3,59; sottoscrizione a f. 117r) che sicuramente non è da identificarsi con il fondatore Bartolomeo da Simeri, perché quest'ultimo viene menzionato nella sottoscrizione come "nostro padre Bartolomeo". Si noti in particolare la parola ἄλλως nella prima riga della seconda colonna, con l'accento acuto che precede lo spirito dolce.
Per ulteriori approfondimenti e esercizi di trascrizione, si veda il Vat. gr. 2050.
D. Lo "Stile di Reggio"
Vi è ancora uno stile di scrittura italo-greca che è associato a un luogo specifico, e cioè quello che R. Devreesse ha identificato nel suo già menzionato libro (p. 40) e che ha proposto di chiamare "écriture de Reggio"; è stato poi studiato più dettagliatamente in un articolo di P. Canart e J. Leroy ("I manoscritti in stile di Reggio ...", negli atti del convegno parigino del 1974, pp. 241-261, rist. in P. Canart, Études ..., pp. 319-339). Nonostante il nome dato dal Devreesse a questa scrittura, essa in realtà è localizzabile su entrambi i lati dello Stretto di Messina, cioè a Reggio sul lato continentale e a Messina sul lato siciliano; un gran numero di testimoni si trovano fra i manoscritti che in precedenza erano conservati nei monasteri locali (in particolare nell'archimandritato "del Santissimo Salvatore in lingua phari" a Messina) e che ora si trovano nella Biblioteca Universitaria di Messina. A differenza delle scritture precedenti, questa presenta caratteristiche assai specifiche che consentono di riconoscerla, in particolare il "contrasto modulare" tra lettere larghe e strette, come si vede nell'immagine qui sotto. È da notare che beta e my minuscole sono larghe, mentre la ny, che è morfologicamente simile, è tuttavia sempre stretta, come lo sono epsilon ed eta maiuscole. Questo contrasto modulare può considerarsi l'esasperazione di una tendenza che era già presente nella scrittura della "scuola" di S. Nilo, della quale la "scrittura di Reggio" condivide, di conseguenza, l'aspetto complessivamente "appiattito".
Il primo esemplare esplicitamente datato di questa scrittura è il Vat. gr. 1646, vergato da un tal Nicola (RGK 3.524) nel 1118 d.C. (sottoscrizione, piuttosto illeggibile, a f. 278v); anche gli altri provengono per la maggior parte dal XII secolo, sebbene Canart e Leroy includessero anche alcuni volumi della fine del XIII secolo e dell'inizio del XIV secolo nella loro lista di manoscritti in "stile di Reggio".
Per ulteriori approfondimenti e esercizi di trascrizione, si veda il Vat. gr. 2290.
E. Scritture corsiveggianti italo-greche del secolo XII
Nonostante la sporadica presenza di elementi corsivi (ad esempio la sequenza alpha-gamma nella riga 5 del campione dello "stile di Reggio" qui sopra), le scritture librarie italo-greche sono generalmente assai formali. Tuttavia, nei manoscritti italo-greci del XII secolo si trovano anche alcuni esempi di scritture librarie più corsiveggianti, incorporando spesso elementi che si osservano anche nelle scritture di cancelleria e nei documenti notarili dello stesso periodo (di queste tipologie di scrittura parleremo soprattutto nella pagina successiva; per quanto riguarda il caso specifico delle mani documentaristiche italo-greche, si veda l'articolo di A. Bravo García negli atti del convegno tenutosi nel 1988 a Erice, vol. 2, pp. 417-445). Alcune di queste scritture fanno un uso estremamente largo delle abbreviazioni, incluse alcune abbreviazioni che non sono usuali al di fuori del contesto italo-greco, come il segno per ἀπο che si vede nel campione tratto qui sotto dal Vat. gr. 1611 (r. 4, nell'espressione fortemente abbreviata τὸ καλὸν ἀπὸ τοῦ κακοῦ); questo manoscritto fu scritto, probabilmente a Rossano (si veda l'articolo già citato di S. Lucà in RSBN 22-23 [1985-86], pp. 93-170: 107), nel 1116/17 d.C. da uno scriba anonimo in una scuola "di San Pietro" altrimenti sconosciuta (l'origine italo-greca di questo manoscritto è infatti altamente probabile ma non attestata obiettivamente). Altre scritture corsiveggianti sembrano essere semplicemente varianti delle tipiche scritture italo-greche, come quella di un certo Bartolomeo da Bordonaro vicino a Messina (RGK 3,60), che sottoscrisse il Messan. gr. 32 nel 1150/51 CE (Lake 9,354) e la cui mano è stata identificata da S. Lucà ("Il Vaticano greco 1926 e altri codici della Biblioteca dell'Archimandritato di Messina", Schede medievali 8 [1985], pp. 51- 79:54) anche nel Vat. gr. 1635 (si veda il campione qui sotto). Questo Bartolomeo usa una scrittura che richiama le caratteristiche principali dello "stile di Reggio" ma che incorpora pure un gran numero di elementi corsivi. Sebbene "informale", questa scrittura risulta molto elegante; la ripartizione delle lettere fra strette e larghe non è sempre quella che si osserva nello "stile di Reggio", ad es. epsilon e sigma qui si contano a volte fra le lettere larghe, così come delta (maiuscola) e la rho corsiva connessa a sinistra.
Per ulteriori approfondimenti e esercizi di trascrizione, si vedano il Vat. gr. 1611 e il Vat. gr. 1635.
F. Il "Tipo Scilitze"
Nel 1978, Nigel Wilson dimostrò (in un articolo su Scrittura e civiltà 2, pp. 209-219) che un famoso manoscritto illuminato dello storico bizantino Giovanni Scilitze (fine dell'XI secolo), ora conservato a Madrid (Matrit. Vitr. 26.2), le cui origine e data avevano per lungo tempo sconcertato i paleografi, era un prodotto italo-greco del XII secolo. Da allora ci sono state alcune controversie sul luogo preciso della produzione del codice: si è parlato di Palermo (questa era la proposta di Wilson), di Messina (S. Lucà in ASCL 60 [1993], pp. 1-91:86) e persino di Costantinopoli, dove sarebbe stato realizzato da scribi siciliani inviati nella capitale proprio per questo scopo (B. Fonkič in Erytheia 28 [2007], pp. 67-89, dove si trova anche un buon riassunto degli altri pareri); tuttavia nessuno ha messo in dubbio le conclusioni fondamentali di Wilson, che si basavano sulla stretta somiglianza tra la scrittura dello Scilitze di Madrid (specialmente nei ff. 88-95 e 187-194) e quella che si trova nei ff. 211-230v del manoscritto medico Vat. gr. 300, la cui origine italo-greca si evince con sicurezza da una serie di indicazioni, tra cui la presenza della scrittura di Reggio nei ff. 262-273, la rigatura a matita e alcuni marginalia sui quali qui non ci soffermeremo. Wilson riteneva la scrittura del Vat. gr. 300 così simile a quella dello Scilitze di Madrid da far pensare che fossero opere di un unico scriba (anonimo), forse dopo un intervallo di alcuni anni (si confrontino, a proposito i due campioni qui sotto). Nel frattempo sono stati identificati circa una dozzina di altri manoscritti che presentano lo stesso stile di scrittura (principalmente da parte di Lucà e di Fonkič; si veda l'elenco nel già citato articolo di Fonkič, pp. 70-71), che è noto come il "Tipo Scilitze" in onore del manoscritto di Madrid. Tra le sue caratteristiche, che per la maggior parte si vedono nei campioni qui sotto, si notino:
- la delta maiuscola con tratto superiore ricurvo;
- l'ingrandimento occasionale di certe lettere, e in particolare di epsilon maiuscola, theta, kappa maiuscola, omicron, sigma (lunata), hypsilon, omega;
- la zeta con un tratto iniziale che si protrae in basso fino a giungere alla linea base;
- la phi con asta insolitamente alta;
- la legatura alpha-sigma con sigma aperta a sinistra; ;
- l'omega soprascritta che vale -ων (a scapito della solita abbreviazione a forma di circonflesso).
L'ultima caratteristica nell'elenco qui sopra è forse quella più insolita; si può osservare nel campione dallo Scilitze di Madrid, r. penultima, nell'espressione εἴσω τειχῶν, nonché due volte nel campione dal Vat. gr. 300 (rr. 5 & 6), nelle espressioni τῶν ὀφθαλμῶν e ὅρασις ἰνδαλμάτων.
Per ulteriori approfondimenti e esercizi di trascrizione, si veda il Vat. gr. 300.